Anche la recente tornata delle prove INVALSI è stata accolta dal rinfocolarsi delle polemiche, che poi sono l’elemento principale, se non esclusivo, su cui centrano e richiamano l’attenzione i media (governati da uno straripante interesse per i conflitti, oltre che, talvolta, dal conflitto di interessi).
Abbiamo deciso di disobbedire, di rifiutarci di sottoporci ad un meccanismo di valutazione escludente e ingiusto che mira a rendere la scuola pubblica sempre più a servizio delle logiche manageriali… Valutare non può significare schedare, mettere in classifica, favorire la competizione tra scuole e studenti… l’Italia è l’unico paese che propone agli studenti delle prove “censuarie” e non “campionarie”.
Queste, secondo diversi organi di stampa, talune delle affermazioni di Danilo Lampis, coordinatore dell’Unione degli Studenti, costretto dalla carica – per la quale, evidentemente, l’Unione non ha potuto scegliere un proprio membro che non fosse, per così dire, un fuori corso – a ricorrere ad un plurale vagamente patetico, peraltro in linea con il richiamo ai fritti e rifritti luoghi comuni dell’avversione per le “logiche manageriali”, le “schedature”, le “classifiche”, la “competizione”.
Sulle prove INVALSI ci sono pareri discordi e discussioni animate e, ovviamente, se ne può pensare ciò che si vuole e ci si può organizzare per contestarle e richiederne la revisione o l’abolizione.
Certo, sarebbe auspicabile che le opinioni sullo strumento potessero formarsi sulla base di una vulgata meno episodica, frammentaria e folcloristica di quella fornita dagli organi di informazione, che pure avrebbero abbondanza di fonti e documentazione cui attingere, se lo volessero. Cosicché, magari, visto che si tratta di scuola, e di scuola pubblica, la conoscenze e le valutazioni sul tema potessero estendersi al di là della cerchia degli addetti ai lavori e di fazioni contrapposte. Ma la minestra che passa il nostro giornalismo è quella che è.
Ciò che però mi sembra decisamente discutibile sono alcune delle modalità in cui si sceglie di condurre la battaglia per affermare il dissenso rispetto alle prove INVALSI. La loro somministrazione non discende dal capriccio decisionista e dall’abuso di ufficio di qualche burocrate in vena di protagonismo, ma consegue a scelte che sono il frutto di processi decisionali regolarmente svoltisi nel quadro delle norme vigenti e dei poteri istituzionali legittimamente in essere.
Il boicottaggio – il rifiuto degli studenti di sottoporsi alle prove e, peggio, il loro sabotaggio buttandone in burletta la compilazione, con l’avallo o addirittura l’incoraggiamento dei docenti (che, oggettivamente, non può non risolversi in una indebita pressione sugli studenti) – a me sembra configurare una prevaricazione inaccettabile, se non un illecito bello e buono. Tanto più quando – com’è oggi nella nostra scuola – nessuno è chiamato a rispondere di queste azioni, e a pagarne i prezzi: come normalmente accade, ad esempio, quando dalle manifestazioni si passa a porre in essere atti di “disobbedienza civile”.
Al contrario, questi tentativi di sabotaggio delle prove INVALSI sembrano accolti con una generale benevolenza, non di rado divertita e ridanciana, e talora persino con il plauso, di molti commentatori più o meno autorevoli e qualificati.
Non mi sembra molto peregrino chiedersi: e se domani degli studenti, individualmente od in gruppo, rifiutassero di sottoporsi a compiti in classe, interrogazioni, test od esami, accampando ragioni di opposizione critica di metodo e di merito – e non si dica che non potrebbero essercene! – come faranno i docenti a sostenere l’inaccettabilità di queste forme di protesta? E a giustificarne le inevitabili ripercussioni negative sugli esiti scolastici degli studenti?
E ci si potrebbe anche domandare: basterebbe allora qualificare i comportamenti degli evasori fiscali, o di chi ricorre al lavoro in nero, o di quanti violano deliberatamente norme urbanistiche e regolamenti edilizi, come atti di boicottaggio di sistemi di tassazione e di regole considerati ingiusti e da modificare, per rendere accettabili, o persino meritevoli, tali comportamenti? E si dovrebbe, conseguentemente, esonerarli da ogni sanzione e considerarli con benevolenza e divertimento?
E’ ben vero, in passato, un passato abbastanza recente, non sono stati pochi a teorizzare idee del genere: e tra essi si sono distinti ben noti e preminenti esponenti politici, e persino forze politiche organizzate. Mi sembra di rammentare, però, che queste posizioni sono state generalmente bollate come irresponsabili, ai limiti dell’eversione. Semplicemente perché la libertà di criticare regole ed ordinamenti, di lottare ed acquisire consensi per un loro cambiamento, non può certo implicare la libertà di violarli a proprio piacimento. Non, almeno, in un regime democratico.
Oppure si devono riconoscere eccezioni a questo elementare principio? E a chi, e perché?