Nella locandina della mostra che porta il suo nome, Niki de Saint Phalle è ritratta in bianco e nero – con una marcata post-colorazione in rosso di capelli e maniche della camicia – mentre impugna il fucile verso di noi e prende la mira, un occhio socchiuso, l’altro a guardarci intensamente. Pur se celata dalle mani e dall’arma, però, possiamo intuire l’espressione sorridente del suo viso – quella stessa che accompagna gran parte delle sue opere gioiose, propositive, potenti, o con la quale commenta produzioni che mettono in scena l’esistenza del dolore, della sofferenza, della cattiveria, della violenza come parte della vita e della società in cui viviamo.
L’esposizione “Niki de Saint Phalle”, aperta dal 17 settembre 2014 al 2 febbraio 2015 al Grand Palais de Paris, presenta l’intero percorso esistenziale e professionale dell’artista attraverso una scelta ampia, ma rigorosa, delle sue opere.
Nata nel 1930 in Francia da famiglia borghese, Niki cresce negli Stati Uniti dove i suoi genitori si trasferiscono con lei ancora bambina, e dove in collegio verrà educata secondo le prescrizioni sociali previste in quegli anni per divenire una buona moglie e madre. Ribelle a tali dettami, però, lavorerà come modella e ventenne si sposerà con Harry Matthews dal quale avrà due figli, e con cui tornerà in Francia.
Qui, in seguito a un ricovero ospedaliero per una grave crisi nervosa, comincerà a dipingere. Sono anni in cui Niki de Saint Phalle viene a contatto con artisti francesi e americani – n primis Pollock, che l’ispirerà sia per il dripping, sia per la monumentalità delle opere – e con le modalità espressive dell’epoca. Jean Tinguely, suo successivo compagno di vita in seguito alla separazione da Matthews, commenta che “la tecnica non conta nulla, quanto invece hanno massima importanza i sogni”. E di sogni e immaginazione Niki de Saint Phalle ne ha – inesauribilmente, nel bene e nel male, tanto da affermare che la sua fortuna sia stata incontrare l’arte, altrimenti avrebbe avuto tutte le caratteristiche per divenire terrorista.
Le sue prime opere, nelle quali sono chiaramente riconoscibili le influenze di Pollock e di Gaudì, esprimono i suoi incubi più cupi in forma di pitture materiche, in cui vengono incastonati oggetti e frammenti in materiali diversi su basi a olio o in gesso.
Tra le altre, Paysage de la mort (1960) mette in scena la sofferenza che accompagna la separazione dal primo marito, anticipando quello che sarà un suo leitmotiv: la rielaborazione d’uso delle armi, che da strumenti di violenza e d’esercizio di dominio, diventeranno espressioni di creazione artistica e bellezza.
Ciò discende altresì dalla sua concezione del genere maschile e di quello femminile come caratterizzati da istanze che derivano dalle loro diverse nature biologiche per cui la donna – capace di generare vita e di qui di ‘generare’ tutto ciò che, in senso lato, da quella discende – viene vista con invidia dall’uomo che, non possedendo tale potenzialità all’interno del proprio corpo, può solo o annientarla o imitarla.
Niki de Saint Phalle ci mostra l’utilità che vi può essere nel distruggere qualcosa per produrre qualcos’altro di bello esteticamente e buono eticamente – ovvero critico, suggestivo, intenso. Nei primi anni ’60 sviluppa una tecnica che consiste nello sparare con un fucile a tele di grandi dimensioni imbiancate, sulle quali sono stati applicati oggetti di ogni genere e dimensione a seconda del tema dell’opera, e dietro o all’interno delle quali sono posizionate sacche di colore diverso che, attraversate dagli spari, esplodono colando sugli oggetti e sulla tela.
La realizzazione delle opere, che affronteranno temi quali la critica alla politica di quegli anni in cui ha luogo la guerra d’Algeria così come la crisi dei missili di Cuba, l’ingerenza soffocante della religione cristiana nella società o ancora modelli relazionali connotati dall’ipocrisia e da dinamiche di potere quali il matrimonio, vede la complicità di Tinguely e il coinvolgimento di amici francesi in quelli che diventeranno veri e propri happening a dimostrazione della bellezza che può emergere da un atto così violento. Successivamente la de Saint Phalle deciderà di rinunciare a tale tecnica dopo averla sfruttata intensamente per tre anni quando si renderà conto d’essere passata dallo sparare a tutto ciò che rappresenta il male, l’abbrutimento, la violenza, alla sua stessa “trance estatica” nell’atto.
La lettura di Le deuxième sexe (1949) di Simone de Beauvoir la porta a creare statue di grandi dimensioni, realizzate in tessuti dipinti su rete metallica, che rappresentano temi classici quali la sposa, la madre, la prostituta, ciascuna dettagliata minuziosamente con oggetti le cui caratteristiche riprendono quelle del ruolo sociale previsto: bambini, fiori, miniature di ogni tipo pesano sulle spalle e sul petto di tali donne sino a togliere loro il fiato, e renderne i visi tragiche maschere di dolore. Parallelamente alla critica, l’artista comincia a lavorare a quelle che invece saranno le espressioni positive del femminile. Tra le prime opere di questa nuova produzione Elisabeth (1965), che raffigura una donna incinta e piena di vita rappresentata in forme morbide, accoglienti e pacificanti e in colori vivaci, netti e sgargianti.
Nana PowerSono nate le “Nanas”, quali Nana noir upside down (1965-1966), le grandi sculture di donne giocose, libere, appassionate, seducenti, allegre che diventeranno la produzione più riconoscibile e diffusa nell’immaginario collettivo quando ci si riferisce alla de Saint Phalle. Le nanas, termine inventato dalla stessa artista per designare “le ragazze”, escono dai confini in cui sono socialmente relegate e danzano, fanno capriole in pubblico, vestono in modo succinto e ancora (se la) ridono. E’ l’ideale della donna e della società dell’artista, che auspica la concretizzazione di un futuro permeato dall’energia creatrice del femminile, una nuova società matriarcale – simboleggiata dalla vagina che diventa, in alcuni casi – come nell’allestimento ad hoc al Museo d’arte moderna di Stoccolma del quale la mostra ripropone un documento filmato – ingresso alla cattedrale in forma di nana cui vengono chiamati a entrare i visitatori per vedere una mostra d’arte e bere latte dai suoi seni. Le nanas saranno strumentali sia al progetto di invadere il mondo di tale sensualità/sessualità/creatività liberata sia poi alla vendita di una loro copiosa produzione per raccogliere il denaro necessario a realizzare in completa autoproduzione con Jean Tinguely il Giardino dei tarocchi (1979-1983) in Toscana.
Giardino dei tarocchiTra l’inizio e la fine degli anni ’70 un blocco di sculture affronterà, in concomitanza con la produzione di Daddy (1973), un film sull’argomento della violenza subita appena dodicenne dal padre, il tema della madre cattiva, critica all’ipocrisia della propria famiglia, e allo scarto tra la dimensione privata e l’immagine pubblica di questa di cui l’artista ritiene responsabile soprattutto la propria madre.
Gli anni successivi, infine, trascorreranno nella collaborazione con l’artista-compagno nella realizzazione del citato Giardino (del quale l’esposizione mette in scena immagini, bozzetti e miniature) e di varie opere pubbliche, quindi nel trasferimento in California in seguito alla morte di Tinguely e nella realizzazione di sculture ispirate all’immaginario messicano della morte.
The Bride
Se Niki de Saint Phalle affermò più volte nella vita la convinzione d’essere nata nel peggior tempo possibile, la sensibilità e la potenza con le quali ha trattato i temi a lei cari nella sua produzione dimostrano esattamente il contrario. Le scelte dei soggetti, le dimensioni monumentali delle sue creazioni e le critiche socio-politiche che emergono dalle sue interviste, rinforzate dall’energia di cui si sente portatrice come donna, amplificano l’urlo di tutte quelle donne che, nel suo tempo come nel nostro, stanno strette nei ruoli e nelle aspettative previste per il loro genere. Il modello che mette in scena, di fatto opposto, rifiuta d’arrendersi alla violenza di un patriarcato tuttora esistente che sta alla base del dominio della persona sulla persona (uomo o donna che sia) e, al contrario, promuove la liberazione da quel modello così da rendere la nostra vita coerente con l’energia che c’è in noi esseri umani nella fiducia che – se questa venisse creativamente ed esteticamente espressa – essa promuoverebbe quella pacificante, felice e condivisa “gioia di vivere” cui tutti possiamo accedere nell’esistenza.
La mostra parigina ci lascia questa sensazione – e non è affatto poco nei tempi in cui viviamo.
di Cristina Balma Tivola ed Emiliana Losma