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Tempo fa, durante una breve vacanza in Irlanda mi ritrovai a Temple Bar, nel cuore di Dublino, in cerca di un posto dove mangiare qualcosa: tutti i pub erano strapieni di gente vociante e festosa che tracannava ettolitri di Guinness guardando una partita di rugby nei maxi-schermi. Solo dopo essere riuscito (con molta fatica) ad avvicinarmi al bancone mi accorsi che la partita in questione era Irlanda-Italia, e la nostra nazionale non è che stesse facendo proprio una bella figura... Fu allora che, con mio grande stupore, compresi che cosa era il rugby: gli avventori del pub, una volta udito il mio idioma e realizzato che venivo proprio dal Belpaese, cominciarono a salutarmi e stringermi le mani pronunciando solo due paroline: "good match, Italy!". Lì per lì, da perfetto italiota, pensai subito che quelli mi stesso prendendo solennemente per i fondelli e che dovessi fare buon viso a cattivo gioco, come si usa da noi quando si perde... e invece, incredibilmente, mi ci volle davvero poco per capire che quei gesti quegli attestati di stima erano assolutamente sinceri: la gente si complimentava con noi perchè avevamo giocato una partita (a dir loro) coraggiosa e pulita, e che meritavamo rispetto e dignità. Ecco: questo è il rugby! Forse l'unico sport di squadra dove ancora la lealtà sportiva, il rispetto per l'avversario e la voglia di divertirsi sono tuttora valori fondanti di questa nobile disciplina.
Clint Eastwood covava da almeno un paio di decenni la voglia di realizzare un film su Nelson Mandela, ma finora non se n'era mai fatto niente perchè trasporre sul grande schermo la monumentale biografia del carismatico presidente sudafricano era un compito decisamente arduo. Ma quando lo scrittore John Carlin fa uscire in libreria il romanzo "Playng the enemy", che narra quanto fu importante per il Sudafrica l'organizzazione della Coppa del Mondo di rugby del 1995, il regista californiano capisce di avere nelle mani l'occasione giusta: dirigere per la prima volta un film sportivo, utilizzando il rugby come metafora per unire ed esaltare un popolo lacerato dall'apartheid e ancora pieno di rancori e divisioni.La storia di Invictus comincia appunto nel 1995: il Sudafrica ha appena eletto presidente Nelson Mandela, l'anziano leader nero rimasto prigioniero per 27 anni nelle patrie galere e ora al timone, votato a furor di popolo, del governo di Pretoria. "Vincere le elezioni è facile, lo è meno governare", scrivono i giornali alla vigilia dell'investitura, e il vecchio Madiba (questo il nome con cui lo chiamano familiarmente i suoi seguaci) capisce che la prima cosa da fare per assicurare un futuro al suo paese è ricucire il profondo strappo tra le due etnie, i neri e gli afrikaners: i primi, infatti, rimasti schiavi e soggiogati dai secondi per tanto tempo, odiano i ricchi bianchi con tutte le loro forze, non facendo mistero di voler distruggere il prima possibile tutti i simboli del potere antico. E tra questi, naturalmente, ci sono gli Springboks: vale a dire la nazionale sudafricana di rugby, composta solo da bianchi e per questo invisa alla popolazione di colore che la considera l'emblema della loro sofferenza. I neri, adesso al governo, vorrebbero sciogliere gli Springboks, cambiare loro stemma, inno e colori e non vedere mai più quelle maglie verde-oro simboli dell'apartheid. Mandela, però, tra lo stupore generale si oppone, intuendo che quella squadra scalcinata e snobbata dal resto del mondo potrebbe davvero diventare un clamoroso veicolo di fratellanza e unità. Per questo, un pomeriggio convoca nel suo ufficio il capitano François Pienaar impartendogli un ordine mica tento semplice: il Sudafrica, per la ragion di stato, dovrà vincere la Coppa del Mondo...
Invictus è l'ennesima sfida del vecchio Clint, che giunto alla soglia degli ottant'anni non smette di regalarci opere importanti e di grande spessore morale e civico: di questo non possiamo che dargliene atto, e anche in quest'ultimo film ci sono tutti gli elementi del suo cinema: rigore, asciuttezza, poesia, sobrietà. Tuttavia, per onestà di giudizio, bisogna dire che stavolta siamo ben lontani dalle vette raggiunte dal regista californiano con Mystic River e Million Dollar Baby: Invictus è un buon film sportivo, dignitosissimo, ben girato, con bellissime scene di gioco, ma anche piuttosto convenzionale e didasacalico, in particolar modo nella prima parte. Morgan Freeman interpreta il ruolo che agognava da una vita, ma il suo Nelson Mandela è un politico fin troppo accondiscendente e misurato, e quasi mai si ha l'esatta percezione dell'immenso carisma che quest'uomo ha nei confronti dei suoi connazionali. La recitazione di Freeman (dovuta, credo, ai vincoli posti dalla sceneggiatura) è fredda, calcolata, fortunatamente non enfatica ma che non trasmette mai veri brividi allo spettatore. Alla fine ne viene fuori un Mandela stereotipato e palesemente "cinematografico", concentrato esclusivamente sul rugby mentre vengono trascurati quasi del tutto gli aspetti umani e privati del grande leader. Bravo, invece, Matt Damon, che ce la mette tutta per essere credibile come capitano della squadra e sfodera una grinta inusitata sul rettangolo di gioco.
Invictus, insomma, è un buon "prodotto medio" che merita sicuramente la visione, e che non rinuncia a scene particolarmente toccanti (ma mai stuchevoli): su tutte, la visita di Pienaar/Damon all'ex prigione di Mandela, dove l'atleta entra per un attimo nella vecchia cella del leader e sembra sentire le parole di quella poesia che lo ha aiutato a sopravvivere negli anni di prigionia, e che è anche il titolo del film. Poesia letterale e poesia cinematografica si fondono con un bell'effetto: sarà anche un Eastwood "minore", ma avercene di film così...VOTO: * * *
Invictus
Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be For my unconquerable soul.
In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.
Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.
It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll
I am the master of my fate:I am the captain of my soul.
Dal profondo della notte che mi avvolge
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro,
ringrazio quali che siano gli dei per la mia indomita anima.
Nella morsa delle circostanze non mi sono tirato indietro
né ho gridato per l’angoscia.
Sotto i colpi d’ascia della sorte il mio capo sanguina, ma non si china.
Visto dall’altra parte questo luogo di rabbia e lacrime appare minaccioso
ma l’orrore delle ombre e la minaccia degli anni
non mi trovano e non mi troveranno timoroso.
Non importa quanto sia stretto il varco,quanto piena di castighi la vita.
Io sono padrone del mio destino.
Io sono il capitano della mia anima.
di William Earnest Henley (1875)
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