Eccomi. Mi sento finalmete nel mio regno, fatto di parole, di immagini e di ferri. Parole scritte nei libri e quelle ancora da scrivere nel computer fasciato da una copertina azzurra. E poi ci sono anche le parole delle canzoni che mi incantano e mi distraggono. Parole quasi esclusivamente italiane sussurrate da persone che conosco e, tante, che avrei sempre voluto conoscere ma forse è meglio che siano rimaste solo dei cantanti. E poi lane e ferri di tutti i colori e tutte le misure, per trasformare un filo in un cappello, in una calza, in un guanto.C’è una libreria rossa, nel mio nuovo studio che quest’estate abbiamo fatto costruire nel seminterrato, tra le radici della nostra casa. Una libreria rossa, con i miei libri su cui ho sudato studiandoli e sottolineandoli al Brooklyn College e che mi hanno aperto frontiere, mi hanno svelato tanti segreti della parte più sottile del tessuto sociale americano. Sono libri, quelli, che non riesco a dimenticare. Ci sono poi i libri scritti dai miei amici, a cominciare da quelli del Giorgio. No ho trovato uno suo, l’altro giorno mentre riorganizzavo la libreria, che aveva scritto tanti anni fa, e che aveva stampato in pochissime copie da dare ai suoi amici. Quates, silenzio: così lo aveva intitolato. Ed è un titolo simpatico e originale ma importante, perché in fondo è un diario di bordo, il suo, bisbigliato a tutti noi, i suoi amici. Parla, ad un certo punto, di una sua visita fatta qui a Boston a me, Dan e Luca, quando ero incinta di Sofia, fotografando quei momenti un po’ difficili e un po’ euforici che volavano tra le stanze di questa casa. Quates, il libro di Giorgio, l’ho messo che sorregge L’Incomputer, libro quasi incomprensibile che mio padre e Enzo avevano scritto insieme, che, forse un po’ come quello del Giorgio, è un’introspezione, un tentativo quasi riuscito (ma forse no) di far capire alla gente come loro due vedevano il mondo. Io personalmente non sono mai riuscita a leggerlo tutto, perché è troppo strano, quasi astratto. Poi, siccome sono esageratamente presuntuosa, ci ho messo anche il mio, di libro. Ma un po’ più lontano: il mio non sorregge nulla. Non ancora. Sulla terza mensola della libreria c’è un piccolo stereo rubato dalla camera di Luca che per fortuna funziona e che mi propone di tutto, da Folco Orselli a Dente, a Paolo Conte, a Guccini e De Gregori fino a Bennato e, ovviamente, Dalla. Poi, che tanto sono da sola, c’ho messo le canzoni che cantavamo io e le sorelle quando facevamo la cucina, per cui: Cocciante (Margherita), Ruggeri (Il mare d’inverno), Battisti (La canzone del Sole), robe così. Una bella raccolta, che però ascolto quando non devo scrivere perché altrimenti mi ritrovo a canticchiare e a pensare a cose lontane.Sulle pareti c’è tanto di Milano: c’è un bellissimo poster che mi aveva regalato Dan, con un disegno delle guglie del duomo che si affacciano sui tetti rossi del resto della città. Ho anche appeso delle fotografie in bianco e nero dei lavori che i milanesi facevano in strada alla fine dell’ottocento: chi aggiusta le sedie, chi le pentole, chi lava i panni, chi suona. C’è anche, tra queste, una fotografia di un barbone seduto su una panchina , con il suo sacchetto di carta con dentro i suoi stracci, proprio come quella canzone là. Sono fotografie che anni fa mi aveva regalato mia sorella Anna, per cui non solo mi piacciono, ma mi ricordano lei, che è una delle persone che amo di più al mondo. Dietro la scrivania, quella solita di quando avevo dodici anni, ci sono tre disegni fatti da Pinuccio Sciola mentre una sera, a casa nostra a Milano, chiacchierava con mio padre. I tratti sono fatti con un pennarello nero su tre fogli di carta per la macchina per scrivere che mio padre teneva nel secondo cassetto della sua scrivania, vincio alla carta carbone; due mostrano giocatori di calcio che corrono, e uno invece ci presenta un giocatore fermo. Lo stile, tipico di Pinuccio, è approssimativo, evocativo. A lui non piace darti la pappa già fatta, lui si affida all’immaginazione di chi osserva la sua arte, e sa che poi ognuno ci aggiunge quello che vuole. Sono disegni che avevo trovato tra le pagine un libro di mio padre, in sala, anni fa. Avere Pinuccio con me, nel mio studio, mi conforta e mi ispira. Il mio sogno è di riabbracciarlo presto. In un angolo della stanza ho messo anche le mie lane, i miei ferri che mi rilassano la sera, quando schiaccio play e la musica riempie la stanza di miele.Insomma, eccomi qui, nel mio studio con le mie cose, con il mio mondo passato e con la prospettiva di creare dei mondi nuovi attraverso le mie parole e la mia voglia di raccontare. Mi sembra di avere finalmente trovato, dopo tanti anni, una dimesione che mi sta giusta e mi fa stare bene. Che non è poco.
Magazine Diario personale
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