Magazine Diario personale
Se nel web 1.0, essere “anonymous” era il massimo dell’aspirazione non è così oggi in un momento storico in cui, parafrasando Wilde, parlatene bene, parlatene male purché ne parliate, è il motto di tanti. Se navigare dopo essere passati per “anonymizer” e avere mille nickname e caselle di posta per condurre ricerche o disturbare i competitor sui news group faceva tendenza, oggi, vale il contrario. Per lavoro, per divertimento o per amore “esserci” è fondamentale. Direi anzi che in un mondo in cui i numeri fanno politica, esserci è l’unica cosa che “conta”. Leggiamo ogni giorno di compravendita di follower su twitter e su FB le fan page si sprecano. Anche se la maggior parte contano non più di trecento “mi piace”, quando tutto va bene, e alcune languono miseramente con ventidue fan coinvolti dall’iniziale entusiasmo del neo artista: amici, parenti e due o tre ex fidanzate, avere una fan page pare che sia l’aspirazione di molti talenti incompresi. Apparire, dunque è aclarato, è oggi più importante che essere.
La percezione che l’altro ha di me venendo sulla mia pagina e contando i miei follower, è assai più decisiva di quella che ho io guardandomi allo specchio e facendo un serio esame dei miei successi reali. I social media hanno messo nelle mani di chiunque gli strumenti per contare qualcosa, e anche se solo virtualmente, ciò attribuisce a ognuno un valore che non deriva quasi mai da ciò che produce o conosce, al livello intellettuale e pratico, ma solo da ciò che digita, posta e scrive. Che poi si tratti di frasi rubate poco importa, è solo la legge dei numeri che vale. E se abitiamo un mondo in cui imperano banalità e luogo comune, i numeri e la loro politica faranno il loro sporco lavoro. Ed è così che anche la personalità più sottile, in fatto di cultura ed esperienza di vita, nascosto dietro al monitor e con un buon numero di volumi accanto, o semplicemente wikipedia, potrà collezionare fan e credersi un vip.
Ma esserci, oggi, a differenza di quanto si pensa, è una pura illusione. E non solo per l’anonimo ma anche per chi, per caso o per merito, è saltato agli onori delle cronache. In questo mondo liquido, definizione nata dalla testa pensante e della penna di Zygmunt Bauman e non dal sagace tweet di un anonimo blogger, affermarsi è complicatissimo. E ciò che in pochi valutano è che se anche dovesse capitare di fare “il botto” –in editoria, in teatro, in musica o tivvù-, questo dura, e in molti casi è un bene, un battito di ciglia. Per definizione, ciò che è liquido scivola via, si asciuga, si assorbe o evapora. Emergere da questo magma di nomi, icone e idee sempre più originali, pare sia l’unica ancora di salvezza di questa trappola infernale in cui ci siamo infilati. Una forma come un’altra di omologazione. Un modo come un altro per negarci la libertà di “essere”.
Infilati nelle nostre gabbiette facciamo ogni mattina la conta dei follower in crescita e ci sentiamo al calduccio. Davanti allo specchio e con gli occhi cerchiati dalle tante ore passate al monitor, riguardiamo ciò che ancora non abbiamo costruito e il nostro domani incerto, ma ci sentiamo comunque protetti, comunque parte di una comunità che ci ama anche se, detto tra noi, nessuno di loro ci verrà mai ad aiutare a risolvere un problema. La politica, il malaffare e la corruzione la combattiamo da qui, dalla nostra poltrona ergonomica, e avere consensi per quel post o per quella battuta, ci riempie di soddisfazione più che scendere in Piazza armati di falce e martello. Ne parlano anche i tiggì. La comunità virtuale fa tendenza e dice no. Gli internauti si ribellano. I politici si litigano primati di visibilità e assumono ragazzetti che li rendano sempre più noti, e lo stesso vale per le piccole stelline o le grandi star di Hollywood. Ma come Walter Benjamin nel 1932 fa dire al suo Arlecchino in uno dei suoi tre drammi radiofonici: è tutto finto. Anche noi siamo finti, perché ciò che twittiamo e postiamo non nasce quasi mai da un effettivo desiderio di comunicare, da un’urgenza di dire qualcosa, ma piuttosto da un bisogno di cavalcare l’onda, di andare incontro ai gusti altrui, mai in controtendenza: rischiamo che qualcuno non sia d’accordo e ci defollowi.
Ed è così che social media ci hanno fatto perdere anche la capacità del rapporto dialettico: centoquaranta caratteri non basteranno mai a confutare le nostre teorie. Se per i monaci e i grandi Maestri zen, che in tanti millantano di conoscere, mettere in dubbio le certezze umane e mistiche è la pratica necessaria con la quale si “raggiunge” l’illuminazione, per l’umanità 2.0 chi mina le nostre ragioni “ottiene” l’inserimento automatico nella schiera dei “rompiballe”. Compiacere gli altri ma con originalità, stare sulla notizia ma evitando considerazioni in controtendenza col pensiero comune, scrivere storie ben congegnate ma senza scuotere le coscienze o minare quelle poche certezze raccolte qua e là sul retro di copertina di qualche importante saggio di filosofia. Mostrare di sé coraggio e un’immagine vincente e ottimista, fare battute anche sulla morte più tragica e ostentare compassione solo quando è d’obbligo o se lo fa “chi conta veramente”. Aspirare a una pubblicazione qualunque perché tanto vanno avanti solo “quelli” e mai mettere in discussione il proprio talento, mai confrontarsi con esempi illustri perché quelli “erano altri tempi”.
Sui social media ci sto perché osservare e ascoltare è ciò che faccio da sempre. Ma a differenza di alcuni anni fa, mi stringo ancora di più al poco che, e con fatica e per merito ho costruito in anni di studio e lavoro, amo ammettere i miei errori e ciò che non conosco non lo respingo, anzi, non faccio che domandare che qualcuno me lo indichi. Come sempre senza uno straccio di progetto, guardo avanti e non mi lascio distrarre dai rumori di fondo. Credo nella causalità, mentre il “caso”, la scusa per molti di evitare di guardare in faccia il proprio fallimento, lo lascio a chi pensa che le azioni compiute valgano meno che vantare più di diecimila follower.
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