100 pagine di violenza, non solo fisica, ma anche psicologica. Informazioni che il lettore già conosce, ma che l’autore cela con abile maestria. Armi, droga, amore. Sono questi gli ingredienti adoperati da Giancarlo De Cataldo per confezionare Io sono il libanese, capitolo zero della sua opera più nota, Romanzo Criminale (Einaudi, 2002).
Squadra che vince non si cambia. Una regola d’oro per il calcio ma, a quanto pare, buona anche per chi scrive. Con questo prequel, De Cataldo, il giudice-scrittore che ha reso celebri i componenti della Banda della Magliana, romanzandoli all’interno di un’opera verosimile, riporta in scena personalità come il Dandi, Bufalo e Scrocchiazzeppi, ma, soprattutto, come il Libanese, il protagonista del libro, che si rivela, ancora una volta, un personaggio costruito senza sbavature: un ragazzo divorato dai demoni del potere che spinge la sua vita verso la concretizzazione del sogno di diventare il re della Roma criminale.
L’ambientazione è quella della Capitale degli anni ‘70. Pietro Proietti, in “arte” Libanese, è in prigione per una questione di armi. Ha solo 25 anni e vuole coronare il sogno di vivere senza padroni. Ha un motto: «mai servo di nessuno, ma solo e sempre padrone di se stesso». In galera, difende il nipote di un malvivente e s’ingrazia così un camorrista, Pasquale ‘o Miracolo. Pietro è sveglio e il boss della camorra lo prende in simpatia, offrendogli anche l’opportunità di entrare in affari con lui per un traffico di droga. Per farne parte, però, servono soldi: trecento milioni. Una cifra esorbitante per un ragazzo cresciuto in strada come il Libanese, che, però, non si dà per vinto. Una volta fuori, infatti, organizza piccoli colpi con i suoi compari e amici di sempre. Conosce anche una ragazza, Giada. Lei, però, è diversa; fa parte di un’altra Roma e frequenta gente di un ceto sociale più elevato, esce con ragazzi per bene, vive la vita come una persona comune. Si droga, ma solo un po’, e sempre senza esagerare. Ha ideali di sinistra e mira alla “rivoluzione”. Questo al Libanese non sta bene. Lui non condivide l’ideologia comunista dell’epoca. Anzi, ha un busto di Mussolini che deve nascondere prima che Giada lo vada a trovare a casa sua. Non vuole ferirla, anche perché a lei tiene molto. Nel frattempo, deve trovare i soldi per entrare nel traffico di droga e l’impresa non si rivela facile. Così, decide di organizzare un sequestro di persona.
De Cataldo sfrutta dei personaggi già ben costruiti e un’ambientazione, quella della Roma degli anni ‘70, che ha riscontrato un notevole successo, a partire dal film di Michele Placido, per terminare con la serie TV diretta da Sergio Sollima.
Io sono il Libanese è certamente meno avvincente del libro uscito quasi dieci anni fa, ma ha sempre lo stesso appeal, soprattutto per chi ama il genere noir, dove il punto di vista è spesso quello criminale. Quello di Io sono il Libanese, poi, è un De Cataldo più maturo e ironico, che gioca con la consapevolezza del lettore di una storia già narrata. Tuttavia, non cade mai nel banale; anzi, la trama è molto ben articolata e le parole utilizzate non rivelano mai cosa effettivamente stia per accadere.
La storia ha una vita a sé: ha un inizio ed una fine ben studiate, che reggono bene senza alcun richiamo al romanzo precedente. Nondimeno, chi ha avuto modo di leggere il libro, vedere il film o seguire la serie TV, si aspetta da un momento all’altro l’arrivo anche degli altri protagonisti. Cosa che non avviene, soprattutto perché questa è la storia del Libanese, come sottolinea anche il titolo, e non della Banda.
Edito da Einaudi, è scritto con un linguaggio semplice, asciutto e infarcito di termini romani, ed ha una struttura narrativa snella e priva di fronzoli letterari.
Io sono il Libanese è un romanzo di “solitudine criminale”. Così l’ha definito qualcuno. Ed ha ragione. Perché il protagonista si trova a combattere contro la spietatezza della vita di strada e De Cataldo è riuscito a far trasparire questo concetto in maniera impeccabile.
Una frase contenuta nel primo capitolo racchiude lo stile e il senso di tutto il romanzo: «Lui ci sapeva fare, e a mani nude e col coltello. Aveva imparato da bambino, da una maestra che non perdona: la strada. Là dove ti guardano e capiscono subito se sei pecora o leone. Se il tuo destino è crescere, o morire».