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“Io ti appartengo e dunque tu non mi possiedi”

Da Dallomoantonella

 

“Io ti appartengo e dunque tu non mi possiedi”

Come si può capire dal titolo di questo post oggi vorrei parlare con voi, amici carissimi, della sostanziale differenza che corre tra il termine appartenenza ed il termine possesso.

L’idea nasce da quella lunga serie di delitti che si sentono quasi quotidianamente dai vari telegiornali; uomini abbandonati che non accettano l’abbandono ed improvvisamente si trasformano in killer, in assassini spietati, spesso non solo della loro donna ma anche dei loro stessi figli, colpevoli solo di esistere.

Si sa che sono tutti legami malati, legami deviati, legami distorti, privi della capacità di una reale convivenza all’interno della coppia; convivere, ossia dividere la stessa vita, significa per lo più riconoscersi, scoprirsi e riscoprirsi giorno dopo giorno, rispettarsi, sapersi ascoltare, sapere accettare i bisogni reciproci, ossia tutte quelle prassi di vita che sono il fondamento del bene, che sono la base dell’affetto, dell’essere una coppia ed  una famiglia.

Le coppie (e le famiglie) che fanno tutto questo al meglio, che si calano nel solco di questo cammino, diciamo la verità, sono veramente rare, proprio perché è raro l’amore vero, l’amore pieno, l’amore totale, in altre parole, l’essere innamorati sul serio del proprio compagno o compagna che sia.  Ma non è affatto raro il bisogno e la ricerca  di  questo equilibrio,  per cui  ogni   giorno  ogni famiglia, ognia coppia ha la sua nuova possibilità  di scoperta, di rinnovamento, di crescita.

Una vera coppia   dunque   coltiva il senso dell’appartenersi, giammai   del possedersi. L’appartenenza è una scelta  attiva per emtrambi i protagonisti   coinvolti, mentre il possesso è un sopruso, è uno stato passivo per chi lo subisce ed uno stato di  sovraeccitazione    per chi lo esercita.

L’appartenenza è un sentimento femminile (che non vuol dire che ce l’hanno solo le donne), docile, sottomesso ed è la sola condizione che permette la crescita di  un legame all’interno di un rapporto; “Io ti appartengo” significa semplicemente “Io ti ho scelto, consapevolmente, con tutto il mio cuore, la mia anima, la mia mente” e questo lo pronuncia la donna verso il suo uomo e lo pronuncia l’uomo verso la sua donna.

Tu non mi possiedi” è l’espressione complementare e conseguente a questa appena pronunciata: il possesso è infatti un sentimento maschile (che non vuol dire che ce l’hanno solo gli uomini), violento, aggressivo, che può essere rivolto solo alle cose inanimate ma non verso le cose animate e meno che meno verso le persone, gli esseri viventi.

Quando il sentimento del possesso da parte del maschio viene rivolto alla propria compagna (come può accadere  che  sia la femmina  ad esercitare un comportamento possessivo verso il proprio compagno, per quanto questa possibilità  è meno frequente) siamo di fronte ad una persona instabile, immatura, che non controlla la propria aggressività, che si considera padre padrone della propria donna, madre/matrigna   del proprio  uomo,   totalmente incapace di accettare quello che spesso accade inesorabilmente, ossia che la donna per un istinto successivo di autodifesa e di difesa dei propri figli decida di allontanare il compagno così infaustamente scelto, o che l’uomo  per un  istinto  di  rivendicazione  decida di allontanare  la compagna  così  infaustamente  scelta (più  raro ma non da escludersi).

Purtroppo molto spesso   questa revisione da parte della vittima  di turno  che decide di non fare più la vittima, è destinata a finire in modo poco felice; non ci sono leggi capaci di tutelare una donna/madre che cerca di separarsi da un uomo/padre violento.

O meglio, le leggi ci sono ma sono inefficaci, nel senso che non servono a bloccare, deviare, impedire un progetto folle e delirante che matura nella testa di un marito/compagno/padre  o di  una moglie/ compagna/ madre  che decide di uccidere pur di non ammettere la propria sconfitta, il proprio fallimento, la propria incapacità a voler bene in modo responsabile.

Che poi non è vero che queste persone siano incapaci di voler bene, semplicemente non hanno voglia di mettersi in discussione, ed  hanno avuto un’educazione dove è completamente mancato lo spirito del servizio, del dedicarsi a qualcuno.

Ci sono persone grandiose che sanno egregiamente occuparsi di qualcosa, delle più stravaganti e complicate occupazioni, ma non sanno minimamente occuparsi di qualcuno, fosse anche il proprio cane o il proprio criceto.

Queste persone possono essere anche per lo più non solo capaci, ma straboccanti di mille risorse tra le più varie: possono essere geniali, intuitivi, divertenti, sanno assolutamente scegliere nella vita, possono essere generose ed altruiste, difficilmente sbagliano colpo e falliscono il bersaglio, hanno molte conoscenze, sanno farsi apprezzare, sanno così accumulare successi su successi, opere su opere, progetti su progetti, ma poi, quando si tratta semplicemente di sapere essere dei buoni mariti e dei buoni padri (e di pari passo delle buone mogli o delle buone madri), si trasformano nelle persone più inconcludenti e deludenti dell’universo.

Pensiamo, tanto per fare esempi concreti e tristemente conosciuti, a tutti quei figli che non si sentono riconosciuti dai loro padri o dalle loro madri   perché sanno di essere come il padre o come la madre  non li vorrebbe; potere essere come si è, rappresenta una necessità, non certo un privilegio, eppure per questi poveri figli diventa un enorme problema, una specie di sfida che devono affrontare ingiustamente e che li condiziona, in un senso tutto debilitante, nella vita.

Se questo padre (o madre) smettesse di fare il padrone, smettesse di stare dietro l’uscio della stanza ad osservare come se fosse un giudice implacabile tutte le mosse o non mosse del figlio, scoprirebbe che  questo   figlio saprebbe essere migliore di quello che dimostra d’essere, ossia questo figlio potrebbe esprimere in modo naturale il suo senso di appartenenza, di appartenenza alla sua famiglia che lo ha generato, generato per farne un uomo felice e non certo un uomo condizionato e smarrito.

Se quest’uomo (o donna) smettesse anche solo per poco di giocare con la vita delle persone che dovrebbe ritenere le più care e importanti della sua vita, scoprirebbe come è semplice la felicità, come è semplice l’amore, come è semplice praticare il sentimento del volersi bene.

Purtroppo le cose semplici sono anche le più difficili: ci sono i condizionamenti, le sovrastrutture, gli egoismi, gli interessi, le incapacità personali, le forme mentis stabilite e dettate dall’esterno e non dall’interno dell’essere.

Tutto questo allontana dal sentimento dell’appartenenza, del riconoscersi, del volersi aiutare contro la volontà del volersi complicare la vita.

Se il padre o la madre che sia   vuole il figlio medico perché è lui stesso medico, o se lo vuole con un certo carattere perché non si può immaginare un derivato della propria carne che non risponda alle proprie aspettative, tutto questo meccanismo andrà a scontrarsi nel tempo con la volontà specifica dello stesso figlio che chiederà, a Dio piacendo, semplicemente d’essere stesso.

Scusate, m’è venuta spontanea l’espressione a Dio piacendo, ma in questo discorso io parlo anche degli atei, di quelli che non credono; siamo tutti nella stessa barca, nella stessa condizione, come dire i figli sono tutti uguali…

Personalmente non vedo la fede come un ostacolo al genere umano, o al miglioramento dell’assetto sociale.

E’ semmai una cosa in più, non in meno; quello che la fede non deve diventare è una specie di lavaggio del cervello che ci impedisce di vedere le cose dal puro punto di vista della ragione.

Il laico può essere semplicemente chi non impone a nessuno il suo credo, non uno che sostiene che la religione è l’oppio dei popoli; il laico può essere chi chiede di non doversi vergognare di credere, rimanendo uomo tra gli uomini ma figlio di Dio tra altri figli di Dio; la fede, quando autentica, non può che rimanere nella sfera privata della persona, ma dall’interno della persona questa fede detta le sue regole; a secondo di quanto questa fede possa essere più o meno forte, più o meno incoraggiata, essa condizionerà la nostra vita quotidiana, scandendola di giorno in giorno.

Come si è potuti finire a parlare di fede se eravamo partiti con il parlare di amare qualcuno? Semplice, per un credente la fede non è che l’amore di Dio per l’uomo e dunque l’amore dell’uomo per Dio.

E’ il fedele che dice a Dio, “Io ti appartengo e dunque tu non mi possiedi”, tanto che ogni giorno ci si può allontanare da questo Dio accondiscendente quanto geloso, senza che Dio abbia ad irritarsi al punto di smettere di riconoscerci. Siamo solo noi che smettiamo di riconoscere Lui, mai il contrario.

Io ti appartengo per destino”: mi piace pensare che ogni forma d’amore serio  nasca per destino, il destino di trovarsi nello stesso luogo quel giorno di quell’ora.

“Io ti appartengo ma voglio continuare a fare quello che voglio io e non quello che potremmo volere  insieme” è invece una forma d’amore non amore; come dire, “io so, io riconosco che tu mi ami, che tu sei il mio bene, che io ti amo, che io sono il tuo bene, ma non tutti i giorni, non puoi chiedermi questo tutti i giorni, sarò ben libero di dimenticarmi che esisti quando non ti vedo, quando non ci sei, quando mi sto impegnando in altro…”; e questo non è serio, non può essere una condizione accettabile  dell’amore, favorevole alla crescita del bene e del sentimento d’appartenenza, perché si sa, o si ama o non si ama, o si è innamorati o non si è innamorati.

Per concludere esiste  anche un’altra forma di dichiarazione, ossia  l’”io ti appartengo  ma prima di te c’è la legge”  che è invece  solo un’evidente  forma  di  non amore,   una forma pavida  e menzognera d’affetto,  un intellettualismo arido;  è un qualcuno/a  che non ha ancora fatto la sua scelta e si nasconde dietro questa scusante. L’amore  basta a se stesso,  l’amore è legge a se stesso,  potremmo scomodare i più eccellenti teologi  o psichiatri su questo argomento,  e ne usciremmo con la stessa sentenza lapidaria:  ama e  fa quel che vuoi, diceva s. Agostino,  come ho già provato a scrivere altre volte…

L’amore  non è mai sbagliato, è chi non ama e si rifiuta di donarsi che sbaglia. Semmai  l’amore  richiede rischio, richiede coraggio, richiede determinazione,  ma in cambio dona luce, dona forza, dona bellezza.

Sì, prerogativa prima dell’amore è la sua totalità, la sua assolutezza, la sua gelosia dolce, un sentimento  di possesso che però riusciamo a tenere controllato, riusciamo a dominare, non che la gelosia possa sovrastare e fare scempio della vita.

La legge  è la legge, è la norma,  è la regola;   premettendo che ci sono leggi sbagliate o migliorabili,   all’interno della norma  occorre individuare  la prassi  che sappia  attendere allo spirito della legge.  La legge vive là dove ci sono uomini che la rendono giusta,  che la trasformano in una forma di vita  civile.  Mi sembra chiaro che  non si sta dicendo che il mondo non   ha bisogno delle sue leggi, giammai,  si cadrebbe nel caos più spropositato ed  infruttifero  immaginale, è ovvio; si sta solo dicendo     che  è all’interno della legge  che occorre trovare   la via  del cuore  che però ha la sua autonomia, la sua sovranità, la sua  pulsione,  sempre  che  lo si voglia  rendere felice.

Che non è come dire: “Oggi ho deciso di rifarmi le tette, di alzarmi le sopracciglia, di togliermi un pò di grasso dalla pancia…” Il cuore è il cuore,  e poi vedete voi  se si può ridurlo a muscolo…

Ciao   a tutti.

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