Io torno libero, e voi non capite

Da Tabulerase

Le mie dimissioni sono appunto mie, un atto di libertà pura e personale. Di solito vengono intese come una rinuncia e, al peggio, come una fuga. Al contrario, sono per me un acquisto.
Torno libero di fare quello che mi sta a cuore. La smetto di obbedire a un cerimoniale infinito che m’impugna come un ventaglio e mi agita senza tregua.
Sono stanco? È la versione ufficiale. Sono invece stufo di occuparmi di affari di Stato. Questo che presiedo è il più piccolo degli Stati, ma pure il più antico. Ha pochi centimetri ma un fracasso di secoli sulle spalle. Sono stufo di occuparmi di questo apparato che mi schiaccia, mi assilla, mi tagliuzza il tempo in un tritato di scartoffie e appuntamenti.
Mi è salito alla gola il grido di Mosè nel deserto: «Ho io partorito tutto questo popolo, forse sono stato io a farlo nascere?›› (Numeri 11,12). A Mosè gliel’ha caricato sulle spalle e lui non poteva fare altro che andare sotto il peso di quell’umanità affidata a lui. Stavano nel deserto, non poteva dire: “Mi fermo qui, scendo alla prossima, proseguite voi”.
A me è permesso, possono fare senza di me. Non c’è nessun deserto intorno, né trasferimento in una terra promessa. Si sta in un tempo di mezzo. Ho celebrato Natale, non devo celebrare pure Pasqua.
Qualcun altro più fresco di forze e di pazienze porterà questa croce sul Golgota.
Scendo dalla poltrona di Pietro, non morirò da Papa, ma da pensionato. Mi rallegra il pensiero e già sento che mi fa bene alla salute. Assisterò all’elezione del successore, che per essere eletto non dovrà prima
seppellirmi. Dovrà salutarmi, ci abbracceremo e gli cederò il posto ancora tiepido.
Torno ai miei libri, ai luoghi, Roma mi ha trattenuto abbastanza. Potrò parlare la mia lingua e basta, affacciarmi a più piccole finestre.
Le dimissioni influenzeranno il giudizio sul mio operato, ingombreranno il campo di sospetti. Li
dissiperà il mio successore.
Mi congedo con un pensiero del mio benamato Ecclesiaste: “Buona la fine di una cosa, più del suo principio” (7.8).
- Erri De Luca -
Pubblicato su Vanity Fair N. 7 del 20 Febbraio 2013


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