Prima cabarettista, poi showman e infine cantautore. Da dieci anni, Giorgio Faletti pubblica bestseller tradotti in tutto il mondo.
«L’uomo è uno e nessuno».
Questo è l’inizio, la frase improvvisa, il colpo d’occhio incuriosito che ce lo ha fatto conoscere nella sua ultima veste, quella di scrittore.
Nome: Giorgio. Cognome: Faletti.
Uno e nessuno.
È questo l’incipit, dal sapore vagamente pirandelliano, del suo primo romanzo, Io uccido. Libro che ci ha lasciati tutti un po’ perplessi, non tanto per la mole considerevole o per la copertina splatter, quanto per il nome dell’autore, dal colore spocchiosamente dorato, che campeggiava sulla sommità della copertina.
Nato ad Asti nel 1950, laureato in Giurisprudenza, negli anni ’80 avevamo imparato a conoscerlo come cabarettista di successo, battutista esasperato e interprete di personaggi irriverenti. Avevamo imparato a conoscerlo, forse leggermente increduli, come cantautore e interprete di Signor tenente, canzone seconda classificata al Festival di Sanremo del 1994.
Ma non ci saremmo mai aspettati di vederlo in libreria, nel 2002, con un romanzo piuttosto lungo, dal titolo così immediato. E, addirittura, sulla quarta di copertina, la frase iperbolica di Antonio D’Orrico: «Non ci crederete, ma oggi quest’uomo è il più grande scrittore italiano». Con il classico scetticismo che accompagna da sempre l’inconsueto, abbiamo comprato questo libro, lo abbiamo letto, lo abbiamo assaporato e poi amato. Non credevamo potesse scrivere un thriller di quel genere perché, fino a quel momento, il thriller/hard boiled di grande tiratura era stato appannaggio esclusivo della scuola anglo-statunitense: autori come Michael Connelly, Jeffery Deaver, Jess Walter, John Grisham e James Patterson in Italia non c’erano. C’erano, però, i vari Camilleri, Carlotto, Lucarelli. E, da qualche anno, gli strepitosi De Giovanni e Carrisi. Autori di polizieschi all’italiana, ambientati sovente nella provincia, con personaggi forti e caratterizzati, immersi in contesti spesso locali. Sono questi i punti di forza della nostra narrativa di genere, sono queste le coordinate sottese al solco tracciato dal giallo italiano.
Ma Faletti è uno e nessuno. E dopo il cabarettista, il cantautore e l’attore, arriva lo scrittore.
E questo scrittore getta un ponte, costruisce una via percorribile là dove prima c’era uno spartiacque: Io uccido mutua gli stilemi del thriller d’oltreoceano, li innesta su uno sfondo suggestivo come quello del Principato di Monaco e dipana la fitta trama attraverso un linguaggio scorrevole, a tratti addirittura poetico. Un linguaggio ammaliante del quale, uno come Faletti, sinceramente non lo ritenevamo capace. Ecco che le quattro milioni di copie vendute, solo in Italia, trovano una giustificazione.
E dopo Io uccido, a distanza di qualche anno, arriva il secondo thriller, dal titolo ancora più bello: Niente di vero tranne gli occhi (2004). Ambientazione newyorkese, trama fitta e calibrata, serial killer da catturare. Frase d’apertura: «Il buio e l’attesa hanno lo stesso colore».
E anche stavolta, come la prima, siamo d’accordo con lui. L’attesa è durata due anni e ha avuto il colore impalpabile dell’oscurità. Ma ne è valsa la pena. Perché Faletti, uno e nessuno, ci ha appassionati di nuovo. Forse non come la prima volta, ma ce lo aspettavamo: già il fatto d’essersi mantenuto a livelli non eccessivamente inferiori rispetto all’exploit d’esordio è una buona conquista.
Accanto alle celebrazioni, però, cominciano a fioccare le prime critiche. Per molti, Faletti non è un autore “genuino”, uno che scrive di quello che sa, che semina la farina del proprio sacco. Per molti, è uno scrittore che “scimmiotta”, un autore furbo e scaltro che imita i grandi maestri americani.
Nonostante queste voci fuori dal coro, dopo il secondo esperimento arriva il terzo: a quattro anni da Io uccido, ecco Fuori da un evidente destino (2006). Trama gialla, storia ambientata in Arizona e indiani Navajos che fanno la loro comparsa tra i personaggi principali. Ma stavolta qualcosa è cambiato. Il sovrannaturale fa il suo ingresso nel mondo noir, e quello di Faletti non è più un timido tentativo letterario, ma un manifesto culturale. E le milioni di copie vendute in tutto il mondo rispondono alle frequenti critiche secondo le quali lo scrittore, nel lavorare al primo romanzo, si sarebbe fatto aiutare dal suo amico e collega Jeffery Deaver (l’autore de Il collezionista di ossa, per intenderci).
A questo punto l’autore spiazza un po’ tutti con una curiosa parentesi fanta-horror: la raccolta di racconti Pochi inutili nascondigli (2008). Un’antologia di sette storie oscillanti tra alti e bassi, una manciata di racconti costruita sulla falsariga di Stephen King e Clive Barker.
L’anno successivo, sempre per la Baldini&Castoldi (il suo editore storico), ecco il suo trionfale ritorno al thriller: Io sono Dio (2009). Nel titolo niente di autobiografico, tiene a specificare l’autore, ridendoci sopra. Si tratta di un ritorno piacevole al giallo originario, con tanto di colpo di scena finale e flashback sulla guerra in Vietnam. La storia è buona, la scrittura decente, l’idea originale. Ma forse qualcosa manca. Manca l’irresistibile slancio poetico di Io uccido, manca la suspense capillare e crescente di Niente di vero tranne gli occhi. Insomma, nei contorni indefiniti di una lettura sempre sull’orlo dell’attesa, ci rendiamo conto che qualcosa non c’è e, forse, proprio l’incapacità di definire questa mancanza è l’origine della mancanza stessa.
Giorgio Faletti scrive bene, c’è poco da dire. Ha una proprietà di linguaggio e una capacità di tessere trame che lo hanno fatto passare da esordiente impacciato a professionista del mestiere in pochi anni. La sua prosa è poetica, elegante, i personaggi caratterizzati in maniera originale e puntuale. Forse, però, col tempo emergono quelli che sono i suoi difetti di fondo: una scrittura che può risultare ridondante, la voglia di strafare, alcune vicende tirate per i capelli.
Difetti che si palesano in Io sono Dio e forse, ancora di più, in Appunti di un venditore di donne (2010). Quest’ultimo segna un’altra piccola svolta, giacché in questo caso il thriller falettiano non è più ambientato negli USA, ma nella provincia italiana di qualche decennio fa. Sembra un passo indietro, una sorta di virata verso il noir all’italiana che ha in un altro Giorgio (Scerbabenco) il suo padre fondatore. Benché la storia sia scritta bene, e nonostante i personaggi siano marchiati a fuoco tra le pagine, l’ultima fatica di Faletti dimostra più delle altre alcune lacune di fondo, che l’autore a stento riesce a colmare. La pomposa ricerca del colpo di scena, la spasmodica tensione verso una frase a effetto, la costruzione chirurgica e meticolosa di una trama tanto complessa che, alla fine, perde credibilità e fascino.
E forse qui e per questo, s’inserisce l’ultima scelta, il colpo di coda che pochi hanno capito, pochi hanno compreso. Tre atti, due tempi (2011), ultimo libro di Giorgio. Non è un thriller e l’editore non è Baldini&Castoldi, ma Einaudi. Stavolta a reggere le fila della storia è una vicenda di provincia, una storia drammatica sulla corruzione nel calcio e sul conflitto tra genitori e figli. Un romanzo mainstream che poco o nulla sembra avere in comune con i libri precedenti. Come spesso accade, però, la critica e il pubblico si sono divisi. Alcuni hanno apprezzato il tentativo, la sortita letteraria che sa tanto di rifiuto a farsi etichettare; dall’altro, molti hanno urlato per pubblici proclami la nostalgia per il Faletti vecchio stile, per i gialli pomposi ambientati nelle megalopoli statunitensi e per le trame calibrate e sherlockiane.
Quale sia il futuro di Faletti non possiamo saperlo. Forse nemmeno lui lo sa. E i suoi libri, così avvincenti e così venduti, dividono lettori e critica con una separazione quasi manichea. Ma una cosa possiamo dirla. Faletti non lascia indifferenti. Non può lasciare indifferenti, perché i suoi libri hanno raggiunto vette da capogiro. Nessun italiano, prima di lui, ha mai nemmeno sognato di toccare cifre del genere con romanzi gialli. E se è vero che la quantità non sempre si accoppia alla qualità, è pur vero che al cospetto di un fenomeno popolare di tale portata occorrerebbe chiedersi il perché di un tale successo. Perché era già famoso, dicono alcuni. Perché i suoi libri sono capolavori, sostengono altri. Forse hanno ragione entrambi e nessuno.
O forse, cosa probabile, l’unico ad avere ragione è ancora lui, Giorgio Faletti. Un nome che incute rispetto per la persona, ancor prima che per lo scrittore. Perché quella di scrittore, oltre che una passione, è anche una maschera. È il viso plastificato di Guy Fuwkes che copre le fattezze del protagonista di V per Vendetta e attraverso la quale la sua voce roca ci ricorda che dietro la maschera, come dietro la scrittura e lo scrittore, non c’è solo carne, ma c’è un’idea. Soprattutto, c’è un sogno. Quello di realizzare le proprie ambizioni, di essere in pace con se stessi, di essere felici. In poche parole, il sogno di un uomo nato per vincere.
Diego Di Dio