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Io voglio giocare

Da Flavialtomonte

Eccoci. Siamo più vecchi di sempre. E il riflesso si vede anche dalla pozzanghera più lontana. Impossibile evitarla. Ci insegue fin dentro gli specchi e ci guarda: ti guarda. Sei lì, che ti vedi appena.
Due occhi fermi su uno sguardo stampato su foglio A4. Lisci, viscidi e lascivi, bloccati al ricordo.

In un giorno così si potrebbero fare tante di quelle cose da convincersi che l’avveire è questo qua. Tutto quello che offre l’orizzonte: una passeggiata in spiaggia, un giro in barca, una nuotata a largo e poi a scolarsi dall’acqua salata sul bagnasciuga.
Ci avanza solo un pensiero per cadere, ma decidiamo di non farlo. E accettiamo le peggiori raccomandazioni “non andare a largo che è pericoloso!
Corri sotto l’ombrellone con i piedi che soffrono, e prendi a giocare a bocce. Lì la sabbia non brucia, anche se il sole è diretto, perché abbiamo pazienza.
Corriamo a contare le distanze, e non sentiamo niente.
Ci sediamo per terra, e non sentiamo niente.
Ci mettiamo in piedi a guardare dove arriva la boccia, e non sentiamo niente.
Perché siamo impegnati a giocare, prima che la vita si prenda gioco di noi.
Passato il divertimento, di nuovo dentro l’acqua a giocare ancora. Trasparente e cristallina, lasciamo che sia lei a guidarci e poi con foga ci immergiamo per ringraziarla. Per aver giocato con noi, o forse noi con lei.

In un giorno così si potrebbe anche morire, ma abbiamo deciso di restare. Vogliamo vedere come va a finire. Come in un gioco: c’è chi gioca e c’è chi bara. I primi rispettano le regole – della natura – si divertono con discrezione;
i secondi vogliono vincere a tutti i costi, e giocano d’anticipo, non aspettano di vedere come va a finire: arrivano dritti alla fine.


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