a gentile richiesta, il seguito al maschile del post precedente
Io invece ho un altro ricordo, di un pomeriggio freddissimo che il sole già calava alle quattro, noi in cima alle scalette che scendevano giù in Città Vecchia, la bora al suo terzo giorno che strapazzava i teloni di un piccolo cantiere abbandonato. Io che mi guardavo le scarpe per evitare non il tuo sguardo ma il mio, mentre ti dicevo basta, che ci sto a fare qui, devo partire; e tu che guardavi un bottone del mio cappotto come se la mia voce venisse da lì, come se sotto ci fosse la mia anima ben chiusa perché non scappasse – avrebbe potuto perdersi – poi alzavi la testa verso i miei occhi terribilmente imbarazzati, pentiti quasi, e quietamente mi dicevi solo va bene, vai, ti aspetterò.
In quel momento mi hai fatto paura. In quel momento ho smesso di credere che l’avrei fatto sul serio. Partire. Andarmi ad arrischiare una vita migliore. Già di per sé era un’impresa formidabile il solo prospettarmelo, ora poi diventava maledettamente più difficile realizzarla perché avrei dovuto assumermi l’ulteriore responsabilità di avere qualcuno che mi avrebbe aspettato.
Eppure tu eri così tranquilla, così ragionevole. Credevi di esserti immedesimata in me, nel mio desiderio, credevi di averlo fatto tuo serenamente, così come in una coppia si cerca di condividere il bene e il male. Ma per me non era così. Io non ero ancora pronto a tanto. Quello che volevo non era una vita migliore ma fuggire da me, lo stavo capendo solo in quell’esatto momento. E se tu mi avessi aspettato, non avrei mai potuto fuggire così lontano.
Dimmi la verità, lo sapevi e lo hai fatto apposta?
Perché, vedi, più tardi ho pensato che tu avessi voluto mettermi alla prova. E se così è stato – magari lo hai fatto inconsapevolmente, in fondo avevi solo diciassette anni ed è questo che poi mi turbò più di tutto – in quel caso io la prova l’ho fallita, restando qui, e nel tempo cambiando poco di me e della mia vita, senza troppa infamia e senza troppa lode, senza troppo rischio né troppa ambizione, qui lungo il sentiero, sempre quello, sempre lo stesso, ma sicuro nella sua mediocrità.
Se fossi partito davvero, avrei dovuto vincere per trovare il coraggio di tornare. Per non temere di affrontare le risatine e lo scherno degli amici del bar, la pallida delusione di mia madre, il silenzioso disgusto di mio padre. Perdendo non avrei potuto tornare. Ma poiché tu mi aspettavi, avrei dovuto farlo comunque. Quindi niente, non ne feci più niente.
Voi donne la fate facile: se qualcosa vi va storto, piangete, tornate dalla mamma, le amiche vi consolano e danno la colpa a qualcos’altro; alla sfortuna, agli uomini. Gli uomini invece non possono permetterselo. Noi dobbiamo competere, essere cinici, essere superiori. Altrimenti ti cancellano, ti annientano, ti ridono dietro le spalle come i barboni ubriachi agli angoli dei giardinetti.
Fai presto, ora, a dirmi “salta”. E cosa trovo, al di là: il ventenne che ero, le ali per volare, il coraggio di cadere? E se cado davvero, e mi faccio male? E se sbaglio? E se combino una figuraccia, una di quelle che ti mettono ridicolo tutto, credibilità, carriera, posizione, identità sessuale perfino? Chi mi recupera, dopo, me lo dici tu, chi mi salva, chi mi rimette in piedi, chi trova una nuova giustificazione alla mia vita?
Perché mi guardi così, adesso? Ho detto le solite fesserie, vero? E tu non dici niente, sorridi tranquilla come quel giorno di bora, e come quel giorno di bora aspetti che ci arrivi da solo, alla risposta.
Tu.
nell’immagine: Henri Matisse, Icarus – 1943