Iper-inferno [3]: Vassago

Da Ludovicopolidattilo

Di cosa si tratti è “spiegato” qui: [000], [00], [0]. Capitoli precedenti qui: [1], [2].

La storia di Elleborea fu scritta sul quaderno che l’Imperatore realizzò cucendo insieme le palpebre dei nemici sconfitti in battaglia. I 91 re che l’Imperatore vinse, privò di ogni bene e di ogni dignità – purtroppo per loro non della vita – dovevano assistere ai fasti della corte, ai passatempi libertini dei dignitari, ai banchetti smodati, al chiasso vanesio delle fanciulle, senza poter chiudere gli occhi di fronte a tali eccessi. Legati alle colonne del palazzo imperiale testimoniavano del replicarsi infinito dei fasti e degli agi di cui la sconfitta li aveva privati per sempre e si struggevano nell’impotenza. L’imperatore li scherniva di fronte alla corte ma talvolta, la notte, collocato uno sgabello presso gli avversari di un tempo resi inermi, si disponeva a discorrere con loro delle strategie di guerra e del significato del potere poiché, vagando tra gli arredi più opulenti dell’emisfero avvolti nelle ombre della notte, egli si sentiva infinitamente solo.

Il viaggiatore che fosse arrivato nel punto ove le mappe collocavano Eleuthera non avrebbe veduto nulla: né i palazzi che gli architetti più estrosi dell’Impero si vantavano di aver rivestito di conchiglie spiraliformi, né i canali che si narrava veicolassero le acque di 21 mari obbligate a scorrere senza mescolarsi mai, né le sculture che i resoconti affermavano ornare l’ingresso della cattedrale, raffiguranti il dio della prosperità e quello della cupidigia intenti a rivolgersi sguardi di intesa. Di tutto ciò che i resoconti antichi descrivevano riferendosi alla città, nulla si scorgeva attraversandola. Solo innumerevoli cittadini impegnati a fissare lo specchio che ciascuno di essi teneva di fronte a sé con una mano, mentre agiva nel lavoro, si adoperava nelle cure familiari o indugiava nei lascivi o futili intermezzi libertini. Per la propria vanità gli dei avevano condannato Eleuthera a risultare visibile solo attraverso un riflesso.

Dove la conoscenza incontrava il desiderio, là sorgeva Utopia. Dove la saggezza mediava l’istinto, là sorgeva Utopia. Dove in tempo di pace governavano i filosofi che durante l’assedio sapevano pararsi innanzi i bastioni e divenire guerrieri, là sorgeva Utopia. Dove le notti sembravano infinite grazie al vino siriano, ai lazzi con i fratelli sopravvissuti alla battaglia, all’argomentare sul fato e le traiettorie degli astri, al sorriso di una dea che si manifestava in forma di meretrice, là sorgeva Utopia. Utopia era il luogo in cui avresti passato ogni istante in vita e che avresti preferito a qualunque paradiso di qualunque religione per trascorrere l’eternità.

A Elleborea, Eleuthera, Utopia e in molte altre città ho vissuto lavorando con dedizione, arrendendomi alla passione, cospirando nell’ombra, procurando ferite a rivali, generando discendenti che non avrei mai visto crescere e trascorrendo tempo infinito nell’ozio più appagante che si possa concepire. Nessuna di quelle città esiste più. Sulle mappe riportate nell’Hypertartaros sono indicate le rotte per raggiungere quelle città meravigliose, nelle pagine di quel libro loro descrizioni dettagliate e visioni complessive stupefacenti, ma il viaggiatore che intraprendesse un viaggio per visitarle non troverebbe che distese di polvere prive di qualsiasi architettura, manufatto o traccia di civiltà umana.

Oggi il viaggio non mi sa procurare alcuno stupore, poiché ovunque trovo lo stesso idioma, la stessa moneta, edifici identici, lo stesso vino, le medesime paure e uomini abbigliati nella stessa maniera che sognano lo stesso sogno privo di gloria e incertezza. Della mia immortalità non so più che fare. La baratterei immediatamente e centomila volte con la sorpresa di un ultimo viaggio verso una città sconosciuta, anche se quella sorpresa fosse assaporata con l’ultimo fiato della mia bocca assetata dei liquori, della polvere e del mistero del mondo.



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