Leggo questo post di Dino Ameduni per Valigia Blu, e mi sento talmente d’accordo con lui da volerne scrivere.
Un paio di settimane fa ero al supermercato ed incontro un mio amico che, mentre tasta mele e pere, mi dice: “Oh, ma tu non hai una vita tua? Quando mi collego a Facebook trovo una montagna di aggiornamenti tuoi”.
Lui è idraulico, passa tutta la sua giornata tra bidet, lavelli e tubature: probabilmente si collega alla rete di sera, mentre aspetta che la cena sia pronta e prima di sprofondare sul divano davanti alla televisione. Io sto 16/18 ore al giorno davanti al computer per lavoro: già questo crea una divergenza sostanziale nel rapporto con l’on-line, un panorama in cui la televisione è al massimo un sottofondo di immagini col volume sul “mute”.
Ma la cosa che mi crea un imbizzarrimento emotivo (e anche un po’ culturale) è l’associazione tra l’iperconnessione e la vita fasulla, o la solitudine, o l’alienazione sociale.
La rete, oltre ad essere la mia principale fonte d’informazione e di contatto professionale, è anche uno strepitoso strumento di selezione delle affinità per contenuto. Sul web ho incontrato persone con le quali, per differenze geografiche o lontananza di abitudini e frequentazioni, non sarei mai entrata in contatto nella vita off-line: la perdita umana sarebbe stata immane, una sottrazione sconosciuta ma dal prezzo elevatissimo.
Amicizie, rapporti e legami che nascono sui pensieri e non su mille altre stronzate, e si alimentano con lo sharing continuo che ti fa sentire al bar anche quando ti stai fracassando di lavoro in ufficio.
Nel mio caso, poi, l’iperconnessione è anche sopravvivenza e terapia: chi segue le avventure della Minchia Spa sa di cosa parlo. Un buco nero della quotidianità che, condiviso, diventa umorismo noir, solidarietà, intrattenimento, cabaret (e tra poco anche un libro).
Come dice Doonie, una bella punturina gengivale alle ipocrisie delle relazioni.
Non sono una nativa digitale, ma una topa digitale illetterata e piuttosto entusiasta del mio bisogno di wi-fi.