"Se è vero che gli individui perseguono incessantemente e senza compromessi solo il loro ristretto interesse personale, allora la ricerca della giustizia verrà intralciata a ogni passo dall’opposizione di tutti coloro che abbiano qualcosa da perdere dal cambiamento" Amartya Sen
I due testi riportati nel volume della Laterza, una conferenza tenuta nel 1990 e un saggio del 1996, introducono alla riflessione etico-politica del Premio Nobel per l’Economia (1998) Amartya Sen. In centouno pagine ci si fa un’idea di quanto vasto e approfondito sia il sapere dello studioso indiano che ha cercato, nella sua vita professionale, soluzioni scientificamente fondate a problemi umani planetari quali la povertà e la disuguaglianza sociale. Le sue proposte, in ambito politico ed etico si fondano su studi decennali di economia e matematica (teoria dei giochi) e per questo hanno una forza argomentativa che non troviamo nei testi di altri sociologi famosi, analisti della globalizzazione.
Durante il XIX e XX secolo la teoria liberale della Stato Minimo, (in cui uno Stato garantisce la sicurezza dei confini e l’ordine pubblico interno) è stata, con successo, messa in discussione dalle rivendicazioni di cittadini e sindacati che chiedevano forme di protezione sociale. La continua crescita economica e tecnologica consentirono ai vari Stati di stanziare ingenti risorse per servizi quali la previdenza e la sanità per tutti. Gli Stati (alcuni più di altri), insomma, furono spinti a tenere in considerazione le ragioni degli individui.
Oggi sappiamo che proprio durante gli anni ’90 tali ragioni cominciavano a perdere gradualmente diritto di cittadinanza. In questo libro, Sen dice che le società devono impegnarsi, prima di tutto, a favorire le libertà individuali: perché il non essere schiavi dalla fame e dalla malattia è condizione necessaria per poter esercitare il diritto individuale a partecipare alle decisioni della comunità. L’economia può mettersi al servizio della libertà e dello sviluppo umano. Quale autorevole economista non allineato al mainstream, Sen distingue tra conservatorismo finanziario e “l’estremismo anti-inflazionistico e anti-deficit”. Esigenze dei bilanci degli Stati sono quelle di non avere un debito pubblico troppo elevato e di tenere sotto controllo l’inflazione. Obiettivi che un onesto conservatorismo impone affinché l’equilibrio tra entrate fiscali e spese (per servizi, ad esempio) sia sostenibile a lungo termine. Uno dei punti importanti, relativi alla questione sociale, di questo conservatorismo/liberismo riguarda il fatto, o l’ipotesi, che una piena occupazione (cioè disoccupazione nulla) sia raggiungibile solo con una politica di ampia spesa pubblica che crei, “keynesianamente”, lavoro. Sen polemizzava infatti non con il liberismo in sé ma con l’indirizzo preso dalle varie banche nazionali europee (la BCE fu creata dopo, nel 1998) che, insieme ai Governi dei rispettivi Paesi, avevano puntato a “politiche monetarie e fiscali estreme, mascherate da [semplice] conservatorismo” (p.78) tanto che “l’impegno sociale teso a evitare una disoccupazione non necessaria [aveva] perso rilievo fra gli obiettivi politici perseguiti nell’Europa contemporanea” (p.78). Il problema dell’occupazione, collegato evidentemente al tema della povertà e della libertà dal bisogno, veniva spinto ai margini del dibattito. Ne vediamo gli effetti oggi. Queste ed altre considerazioni ci rendono meno ingenui di fronte a determinate politiche di austerity e di riduzione della spesa pubblica che vediamo attuate ad oltranza oggi in mezza Europa: Sen fa capire chiaramente che non c’è una giustificazione macroeconomica a che i tagli ai bilanci debbano riguardare i settori del welfare e dell’istruzione quando altre voci come le spese miliari, la sicurezza interna o il ripianare i conti di enti pubblici in perdita (quali le ferrovie o le poste in alcuni Stati) sono considerate intoccabili. E’ una questione di democrazia: “Mentre gli economisti possono essere molto utili per spiegare e quantificare i costi e i benefici di strategie alternative, le questioni di base possono diventare facilmente oggetto di un dibattito che coinvolga tutti i cittadini.” (p.86) E che certe decisioni siano prese dopo discussione pubblica, informata e libera dei cittadini è condizione che definisce una democrazia. Ma una società democratica è anche quella che lavora a promuovere la partecipazione (ovvero la libertà) di quante più persone e a ridurre l’esclusione: “aumentare le capacità umane [di scelta] deve costituire una parte della promozione della libertà individuale.” (p. 30). Per il lettore italiano sentire un economista perorare la causa della “democrazia come partecipazione” sarà senz’altro una novità. Un ultimo punto che voglio segnalare, estrapolandolo da questo libro, è una piccola considerazione molto penetrante legata alle disuguaglianze. Esiste un sofisma, che va smascherato, per cui se la libertà dei singoli viene posta come valore superiore, Governi e Stati possono essere certi di avere un comportamento formalmente etico quando si limitano a soddisfare quelle richieste che vengono esplicitamente verbalizzate da gruppi e individui svantaggiati. SI difenderebbero così “i loro interessi”. Tuttavia, una semplice conoscenza dell’Uomo, libera da convenienti ipocrisie, rivela che “in circostanze di diseguaglianza e iniquità di vecchia data, i diseredati possono essere indotti a considerare il loro destino come inevitabile […], [e] di conseguenza imparano ad adattare i loro desideri e piaceri, perché non ha molto senso continuare a struggersi per quanto non sembra realizzabile” (p. 21). Non si cerca, cioè, di ottenere qualcosa di cui non si conosce l’esistenza: che sia un ospedale efficiente, un computer, un servizio di autobus che mi porti dal villaggio alla città… fino al diritto di votare, di cambiare residenza per cercare lavoro… Sapere di avere un diritto, e che qualcun altro magari già ce l’ha, è necessario per poter poi rivendicarlo. Focalizzandosi sul tema dell’istruzione e della conoscenza come fattore di emancipazione, da questo deriva che spesso “l’analfabeta […] non è particolarmente scontento del suo stato e l’istruzione non rappresenta uno dei desideri più intensi [del cittadino] che di essa è privato” (p.25). E’ spesso la mancanza di mezzi, anche conoscitivi o culturali, a favorire l’autoperpetuarsi di certe situazioni problematiche e degradate; infatti, come forse avrebbe detto anche Don Milani, una scarsa istruzione finisce col precludere la partecipazione a decisioni che potrebbero modificare in positivo il proprio destino: “l’analfabetismo costituisce una mancanza di libertà, non solo una mancanza di libertà di leggere, ma anche una riduzione dei tutte le altre libertà che dipendono dalle forme di comunicazione in cui è necessario il possesso della capacità di leggere e scrivere” (p.25). ________________________________________________________________________Originario della provincia di Treviso, sono uno psicologo clinico con specializzazione in disturbi dello sviluppo infantile e disabilità. Dopo varie esperienze di lavoro tra Italia e Inghilterra, ora mi occupo di Servizi Educativi presso il Comune di Trieste. Lettore indefesso in stile “topo da biblioteca” amo anche scrivere e curo il blog Psicologiaeinterazioni.blogspot.com. _________________________________________________________________________________