Le Confessioni
d’un Italiano (scritte tra il 1857 e il 1858 ma pubblicate solo nel
1867) di
Ippolito Nievo (1831-1861) sono un’opera cardine della letteratura
italiana. Nievo s’immagina di essere un uomo nato nel 1775, e ripercorre nella
sua opera le vicende personali del finto estensore delle
Confessioni, le quali sono intrecciate con quelle vicende storiche
(dalla Rivoluzione francese in poi) che lentamente e per vie molto traverse
condurranno al Risorgimento. Nievo stesso è stato un protagonista del
Risorgimento, fino a seguire Garibaldi in
Sicilia nel 1860, assumendo cariche
pubbliche nell’isola, e morendo nel 1861 nel naufragio misterioso del piroscafo
“Ercole”.
Le
Confessioni, il cui protagonista si chiama Carlo Altoviti, possiedono
solo in apparenza, i tratti del romanzo storico: un castello sprofondato nella
tranquilla campagna friulana, legata da fili tenui alla Repubblica di
Venezia. Il
mondo dell’infanzia del protagonista, figlio illegittimo costretto a nutrirsi
di ossa e a raschiare il fondo delle padelle, è quello della decadente aristocrazia
veneta ormai al collasso: feudatari, cavalieri, sgherri paesani e fanciulle,
avventure, sono descritti da Nievo con un gustoso spirito satirico. Poi, dopo
la Rivoluzione francese, l’orfanello diseredato entra nella storia e si fa
uomo: vive la stagione napoleonica (ha un colloquio con Napoleone a Udine nel
1797), assiste come doge in pectore alla caduta della Serenissima, è a
Milano e
poi a Bologna durante la Repubblica Cisalpina, combatte per il regno di Napoli
di Gioacchino Murat.
Il romanzo è caratterizzato da
ritmi e stili diversi che non sempre lo rendono omogeneo, ma che ci
restituiscono un’immagine vivida del protagonista. Si passa dal romanzo storico
a quello di appendice, dal romanzo di formazione al racconto pacato di
riflessioni e pensieri. Dopo il
tourbillon
dell’età napoleonica, i tristi anni della restaurazione si riflettono nella
vita di Carlo con una sorta di contrazione della sua stessa esistenza. Alle avventure
del periodo 1797-1807 succede una sorta di stasi. Il romanzo si arena per
riprendersi all’istante, perché è sempre percorso, sottotraccia, dal moderato
idealismo del protagonista, il quale, benché conduca un’esistenza ordinaria (un
matrimonio per una donna che ama tiepidamente, i figli, il commercio), è dotato
di una riserva di passionalità politica ed esistenziale che lo salva dall’inerzia.
Il suo unico amore, per esempio, sarà la cugina, la Pisana, con la quale ha
vissuto intense giornate d’amore a Venezia alla fine dell’800. Il carattere
bizzoso e incostante della cugina, peraltro già sposata per interessere con un
decrepito patrizio veneziano, impedisce un’unione continua tra i due. Ma quando
Carlo sarà esule a Londra, povero e cieco, verrà accudito proprio dalla Pisana
che, morendo poco dopo, gli offre una testimonianza altissima del suo amore. Più
tardi, Carlo, tornato a Venezia con la moglie e i due figli piccoli (di quelli
più grandi uno diventa protagonista della lotta indipendentista greca, l’altro
muore combattendo nel 1830 in Romagna) e impegnato nel commercio, non esiterà
nel 1848 a mettersi al servizio della lotta veneziana contro l’Austria.
Le
Confessioni sono un romanzo radicato nella contemporaneità perché
mostrano come la coscienza politica sia legata a quella personale, e si pongono
come una sorta di storia della coscienza politica italiana dai suoi albori alle
soglie dell’Unità. L’opera è lontana da ogni romanticismo e benché a volte si
vesta di lirismo (svelando vicinanze con la grande prosa manzoniana, come
quando l’autore descrive l’addio alla sua giovinezza al principio del cap. XII),
essa è intessuta di fatti e di vita concreta.
Il protagonista delle
Confessioni viene da una condizione
sociale svantaggiata, e tuttavia, senza mai assurgere a prototipo dell’eroe, né
dell’uomo politico di successo, vive da protagonista “in ombra” la storia di un
popolo, pur restando tutto sommato un uomo medio. La sua carriera politica è brevissima,
quella militare modesta: non combatte epiche battaglie, sfiora solamente i
grandi avvenimenti, conosce Napoleone, Ugo Foscolo, Guglielmo Pepe ma solo per
brevi istanti, e trascorre la seconda parte della sua esistenza a Venezia
facendo il commerciante, sposo d’una donna modesta, per tornare alla fine in
Friuli, vegliardo, con la figlia e i tanti nipoti (di cui i figli del figlio
Giulio, morto in Argentina). La statura del personaggio non è elevata, ma è
proprio questa caratteristica che consente a qualunque lettore di identificarsi
con lui: “grazie a questa statura diminuita, un prototipo di impegno civile non
soltanto estremamente concreto e alieno da troppe sublimazioni … ma – quel che
più conta – accessibile a tutti- Eccezionali nelle
Confessioni non sono gli uomini … bensì gli eventi di una storia in
cui ogni vicenda individuale è costretta in un modo o nell’altro a riflettersi,
riuscendone da ultimo immancabilmente alterata” (cito da M. Allegri, Le
Confessioni d’un Italiano
di Ippolito
Nievo, in
Letteratura Italiana,
vol. IX, Einaudi, Torino).
Nievo nel libro tratteggia
un’Italia spesso allergica a ogni rivoluzione: gli slanci rivoluzionari
appaiono episodi isolati; gli atti di gloria e di coraggio si stagliano come
eccezioni in un panorama dominato da doppiezza e ipocrisia. La fedeltà al
dominante di turno appare la regola, la ricerca del particolare e del proprio
utile sono abitudini radicate, e l’aspirazione a un’Italia unità è patrimonio
di pochi. “Italia” è un nome, ha un significato storico e culturale, ma non
politico. Finché gli italiani, come ai tempi di Napoleone, affidano ad altri la
propria riscossa, non avranno mai soddisfazione, perché lo straniero guarda
agli interessi propri e non a quello di un popolo estraneo. Ma non è solo
questo il problema: finché l’aspirazione all’unità rimarrà sentimento di una ristretta
cerchia intellettuale, incapace di contagiare le plebi con le loro idee, non
sarà possibile unificare gli italiani. Molto belle sono le descrizioni delle
sterili velleità dei giovani intellettuali veneziani che, alla vigilia della
caduta della Serenissima, rivelano un giacobinismo fine a se stesso, incapace
di toccare la coscienza popolare. Esempio di questo sterile sentimento rivoluzionario
è un giovanissimo Ugo Foscolo, che il protagonista conosce a Venezia nel 1797. Nievo
sembra convinto che gli italiani debbano imparare a creare da sé il proprio
paese, perché ognuno, riflette il protagonista delle
Confessioni all’epilogo della propria vita, costruisce il proprio
destino: “La vita è quale ce la fa l’indole nostra, vale a dire natura ed
educazione; come fatto fisico è necessità; come fatto morale, ministero di
giustizia” (cap. XXXIII).
Per questo l’opera manda al
lettore anche un segnale di ottimismo che si palesa sin dalle celebri
primissime righe del cap. I: “Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775,
giorno dell’evangelista S. Luca; e morrò per la grazia di Dio italiano quando
lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo”. La vicenda
di un bimbo senza famiglia, allevato dagli zii in un castello della pianura
friulana, poverissimo e ignorato da quasi tutti gli abitanti del castello,
diventa la storia di un uomo che vive da con intensità la prima metà dell’800
italiano, attraversando i momenti decisivi della storia d’Italia e d’Europa.
Come leggiamo nel cap. XXIII: “Ho misurato coi brevi miei giorni il passo d’un
gran popolo”.
Non è facile parlare in poche
righe di un’opera di più di mille pagine. Essa di certo non ha l’unità
matematica del romanzo costruito a tavolino; ma possiede il fascino del romanzo
d’avventura ottocentesco, nobilitato dal racconto avvincente di avvenimenti
condotto con una maestria che poco da invidiare ha alle pagine di Dickens, Balzac
o Hugo. E poi si tratta di un romanzo scritto da un uomo che, sebbene si finga
ottantenne pur avendo solo ventisette anni, ha avuto un’esistenza intensa, mai
inerte né oziosa: “Io non sono né teologo né sapiente né filosofo; pure voglio
sputare la mia sentenza, come il viaggiatore che per quanto ignorante può a
buon diritto giudicare se il paese da lui percorso sia povero o ricco,
spiacevole o bello. Ho vissuto ottantatre anni, figliuoli; posso dunque dire la
mia”.