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Ippolito nievo: "le confessioni d’un italiano"

Creato il 07 ottobre 2012 da Giuseppe7405
Ippolito nievo: confessioni d’un italiano Le Confessioni d’un Italiano (scritte tra il 1857 e il 1858 ma pubblicate solo nel 1867) di Ippolito Nievo (1831-1861) sono un’opera cardine della letteratura italiana. Nievo s’immagina di essere un uomo nato nel 1775, e ripercorre nella sua opera le vicende personali del finto estensore delle Confessioni, le quali sono intrecciate con quelle vicende storiche (dalla Rivoluzione francese in poi) che lentamente e per vie molto traverse condurranno al Risorgimento. Nievo stesso è stato un protagonista del Risorgimento, fino a seguire Garibaldi in Sicilia nel 1860, assumendo cariche pubbliche nell’isola, e morendo nel 1861 nel naufragio misterioso del piroscafo “Ercole”. Le Confessioni, il cui protagonista si chiama Carlo Altoviti, possiedono solo in apparenza, i tratti del romanzo storico: un castello sprofondato nella tranquilla campagna friulana, legata da fili tenui alla Repubblica di Venezia. Il mondo dell’infanzia del protagonista, figlio illegittimo costretto a nutrirsi di ossa e a raschiare il fondo delle padelle, è quello della decadente aristocrazia veneta ormai al collasso: feudatari, cavalieri, sgherri paesani e fanciulle, avventure, sono descritti da Nievo con un gustoso spirito satirico. Poi, dopo la Rivoluzione francese, l’orfanello diseredato entra nella storia e si fa uomo: vive la stagione napoleonica (ha un colloquio con Napoleone a Udine nel 1797), assiste come doge in pectore alla caduta della Serenissima, è a Milano e poi a Bologna durante la Repubblica Cisalpina, combatte per il regno di Napoli di Gioacchino Murat. Il romanzo è caratterizzato da ritmi e stili diversi che non sempre lo rendono omogeneo, ma che ci restituiscono un’immagine vivida del protagonista. Si passa dal romanzo storico a quello di appendice, dal romanzo di formazione al racconto pacato di riflessioni e pensieri. Dopo il tourbillon dell’età napoleonica, i tristi anni della restaurazione si riflettono nella vita di Carlo con una sorta di contrazione della sua stessa esistenza. Alle avventure del periodo 1797-1807 succede una sorta di stasi. Il romanzo si arena per riprendersi all’istante, perché è sempre percorso, sottotraccia, dal moderato idealismo del protagonista, il quale, benché conduca un’esistenza ordinaria (un matrimonio per una donna che ama tiepidamente, i figli, il commercio), è dotato di una riserva di passionalità politica ed esistenziale che lo salva dall’inerzia. Il suo unico amore, per esempio, sarà la cugina, la Pisana, con la quale ha vissuto intense giornate d’amore a Venezia alla fine dell’800. Il carattere bizzoso e incostante della cugina, peraltro già sposata per interessere con un decrepito patrizio veneziano, impedisce un’unione continua tra i due. Ma quando Carlo sarà esule a Londra, povero e cieco, verrà accudito proprio dalla Pisana che, morendo poco dopo, gli offre una testimonianza altissima del suo amore. Più tardi, Carlo, tornato a Venezia con la moglie e i due figli piccoli (di quelli più grandi uno diventa protagonista della lotta indipendentista greca, l’altro muore combattendo nel 1830 in Romagna) e impegnato nel commercio, non esiterà nel 1848 a mettersi al servizio della lotta veneziana contro l’Austria. Le Confessioni sono un romanzo radicato nella contemporaneità perché mostrano come la coscienza politica sia legata a quella personale, e si pongono come una sorta di storia della coscienza politica italiana dai suoi albori alle soglie dell’Unità. L’opera è lontana da ogni romanticismo e benché a volte si vesta di lirismo (svelando vicinanze con la grande prosa manzoniana, come quando l’autore descrive l’addio alla sua giovinezza al principio del cap. XII), essa è intessuta di fatti e di vita concreta. Il protagonista delle Confessioni viene da una condizione sociale svantaggiata, e tuttavia, senza mai assurgere a prototipo dell’eroe, né dell’uomo politico di successo, vive da protagonista “in ombra” la storia di un popolo, pur restando tutto sommato un uomo medio. La sua carriera politica è brevissima, quella militare modesta: non combatte epiche battaglie, sfiora solamente i grandi avvenimenti, conosce Napoleone, Ugo Foscolo, Guglielmo Pepe ma solo per brevi istanti, e trascorre la seconda parte della sua esistenza a Venezia facendo il commerciante, sposo d’una donna modesta, per tornare alla fine in Friuli, vegliardo, con la figlia e i tanti nipoti (di cui i figli del figlio Giulio, morto in Argentina). La statura del personaggio non è elevata, ma è proprio questa caratteristica che consente a qualunque lettore di identificarsi con lui: “grazie a questa statura diminuita, un prototipo di impegno civile non soltanto estremamente concreto e alieno da troppe sublimazioni … ma – quel che più conta – accessibile a tutti- Eccezionali nelle Confessioni non sono gli uomini … bensì gli eventi di una storia in cui ogni vicenda individuale è costretta in un modo o nell’altro a riflettersi, riuscendone da ultimo immancabilmente alterata” (cito da M. Allegri, Le Confessioni d’un Italiano di Ippolito Nievo, in Letteratura Italiana, vol. IX, Einaudi, Torino). Nievo nel libro tratteggia un’Italia spesso allergica a ogni rivoluzione: gli slanci rivoluzionari appaiono episodi isolati; gli atti di gloria e di coraggio si stagliano come eccezioni in un panorama dominato da doppiezza e ipocrisia. La fedeltà al dominante di turno appare la regola, la ricerca del particolare e del proprio utile sono abitudini radicate, e l’aspirazione a un’Italia unità è patrimonio di pochi. “Italia” è un nome, ha un significato storico e culturale, ma non politico. Finché gli italiani, come ai tempi di Napoleone, affidano ad altri la propria riscossa, non avranno mai soddisfazione, perché lo straniero guarda agli interessi propri e non a quello di un popolo estraneo. Ma non è solo questo il problema: finché l’aspirazione all’unità rimarrà sentimento di una ristretta cerchia intellettuale, incapace di contagiare le plebi con le loro idee, non sarà possibile unificare gli italiani. Molto belle sono le descrizioni delle sterili velleità dei giovani intellettuali veneziani che, alla vigilia della caduta della Serenissima, rivelano un giacobinismo fine a se stesso, incapace di toccare la coscienza popolare. Esempio di questo sterile sentimento rivoluzionario è un giovanissimo Ugo Foscolo, che il protagonista conosce a Venezia nel 1797. Nievo sembra convinto che gli italiani debbano imparare a creare da sé il proprio paese, perché ognuno, riflette il protagonista delle Confessioni all’epilogo della propria vita, costruisce il proprio destino: “La vita è quale ce la fa l’indole nostra, vale a dire natura ed educazione; come fatto fisico è necessità; come fatto morale, ministero di giustizia” (cap. XXXIII). Per questo l’opera manda al lettore anche un segnale di ottimismo che si palesa sin dalle celebri primissime righe del cap. I: “Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista S. Luca; e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo”. La vicenda di un bimbo senza famiglia, allevato dagli zii in un castello della pianura friulana, poverissimo e ignorato da quasi tutti gli abitanti del castello, diventa la storia di un uomo che vive da con intensità la prima metà dell’800 italiano, attraversando i momenti decisivi della storia d’Italia e d’Europa. Come leggiamo nel cap. XXIII: “Ho misurato coi brevi miei giorni il passo d’un gran popolo”. Non è facile parlare in poche righe di un’opera di più di mille pagine. Essa di certo non ha l’unità matematica del romanzo costruito a tavolino; ma possiede il fascino del romanzo d’avventura ottocentesco, nobilitato dal racconto avvincente di avvenimenti condotto con una maestria che poco da invidiare ha alle pagine di Dickens, Balzac o Hugo. E poi si tratta di un romanzo scritto da un uomo che, sebbene si finga ottantenne pur avendo solo ventisette anni, ha avuto un’esistenza intensa, mai inerte né oziosa: “Io non sono né teologo né sapiente né filosofo; pure voglio sputare la mia sentenza, come il viaggiatore che per quanto ignorante può a buon diritto giudicare se il paese da lui percorso sia povero o ricco, spiacevole o bello. Ho vissuto ottantatre anni, figliuoli; posso dunque dire la mia”.

Ippolito nievo: confessioni d’un italiano
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