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Ira, ça ira

Creato il 09 maggio 2012 da Albertocapece

Ira, ça iraAnna Lombroso per il Simplicissimus

L’umanità ha sempre avuto paura della passione furente e funesta, l’ira, che fa perdere i beni più preziosi: lume della ragione e capacità di autocontrollo, una follia provvisoria che mina la lucidità della mente e la determinazione logica delle decisioni, che fa uscire da sé e consegna a un tirannico padrone interiore che   priva dalla facoltà di intendere e volere.

Sarà anche vero che affida gli infuriati a un dominus endogeno e induce ad atti sconsiderati. Ma è anche vero che a provocarla è spesso un padrone esterno, reale: nasce il più delle volte da un’offesa che si riceve magari immeritatamente, bruciante come una ferita. Da un’ingiustizia cruda e spietata, che ci convince di essere stati traditi, insultati, offesi. Che ci priva del rispetto degli altri e di noi stessi. Ma a volte  la collera origina da noi stessi, dalla nostra inadeguatezza, dalla nostra inappropriata sopportazione dell’onta, dall’amaro rimpianto per aver sprecato delle occasioni, dall’acerbo rimorso per una condotta che rovescia esiti perversi su noi stessi. O per l’accidia che ci ha esentati da scelte e responsabilità, condannandoci a subire da vittime iniquità e infamie delle quali siamo diventati pigramente e inesorabilmente complici. E quell’ira rivolta contro di noi assume le forme più implacabili e intransigenti, così che la folle e funesta rabbia può virare in autodistruzione, in colpevolizzazione, in impotenza così addolorata da portare alla morte.

Ci sono momenti, tempi, condizioni, padroni che conducono a far convivere in noi ambedue le forme e i moventi. Come queste tenebre che stiamo attraversando. Che inducono in noi quella collera sdegnata contro chi ha spento tante luci e speranze e deluso tante promesse e contro di noi che abbiamo creduto alle grandi illusioni dei consumi facili e appaganti, all’incanto di un  capitalismo così temperato da sfruttarci ma al suono del clavicembalo, alla fascinazione del potersi appartare senza conseguenze, lasciando fare agli altri.

A guardarsi intorno sembrano sbiadite le facce di quel ritratto di famiglia, gli intellettuali militanti, i cristiani solidali, i comunisti resistenti,  gli anarchici individualisti. Nel deserto filosofico e politico, nella generalizzata afasia,  le rare grida che si levano, rivolte verso il cielo o sprofondate giù verso i sommersi, hanno il suono di   un mantra penitenziale, il lamento di una   malinconia assolutoria, il mugugno del rancore o la nenia riposante dell’ipocrisia. Ai margini delle zone nebbiose di una società in attesa del tocco magico e salvifico della tecnocrazia,  dei territori aridi del cinismo e dell’avidità dei fedeli del neo liberismo si intravvede   un orizzonte livido di passione, rischiarato solo dai focolai del  risentimento e dell’invidia.

Non occorre l’attrezzatura della   “psicopolitica”, quella lettura della materia prima infiammabile e ingovernabile  delle  pulsioni e degli affetti per capire che l’agire sociale oggi è mosso dai tremendi motori della  rabbia, dell’odio e della brama di vendetta degli  “umiliati e offesi” – e non è una novità – ma anche di quelli che finora hanno goduto di un certo diffuso riscatto, di qualche privilegio, di molti beni e ne soffrono la privazione come una perdita ingiusta e disperata.

Non è facile pensare a una amministrazione controllata e razionale   dell’ira e dell’impazienza degli esclusi antichi e nuovi. Che poi dovrebbe essere la funzione della politica.

Quello strano filosofo che è Peter Sloterdijk  disegna  le possibilità di una ’”economia politica dell’ira” che  movimenti e capitalizzi i giacimenti della rabbia  politica, per accumularla e diluirla poi in modi costruttivi,  per riaffermare il ruolo edificante delle “passioni autoaffermative, del desiderio di riconoscimento e della sete di onore e gloria”  aprendo la strada a una comprensione e a una gestione più adeguata del comportamento umano e per indirizzare le relazioni sciogliendo i nodi del conflitto.

Incanta questa ipotesi, non so quanto praticabile. Ma è certo che servono fantasia  e creatività politica per liberarsi dalla strada del pragmatismo delle disuguaglianze che ha intrapreso anche un sinistra, pronta all’acquiescenza dell’accontentarsi, all’accoglienza dell’inesorabilità del mercato e alla rassegnazione alla guerra che i ricchi muovono contro i diseredati, destinata così alla vittoria.

Ma intanto si potrebbe cominciare a esercitare l’ira dei forti, quella di Achille o Agamennone, più che quella addomesticata da una democrazia che è stata ferita a morte, quella di Aristotele, di cittadini comuni in una società dove si dovrebbe essere uguali ma nella quale gruppi o famiglie si ritengono superiori e decidono violentando i più.

Bisogna fare come Aristofane, fare come “le vespe”, i cani del popolo, i più poveri, che si coalizzano convogliando la loro ira e la loro fame contro l’ingordigia dei ricchi, denunciandoli e facendoli condannare e multare in tribunali popolari.

Chissà se le potenti lobby professionali, risparmiate ma minacciate, vorranno prestarsi, se si potesse cominciare a muovere la loro tecnica per l’interesse generale, chissà se si potesse esercitare una pressione di cittadini, eletti e rappresentanti per rivendicare e riappropriarsi di quei beni comuni che sono diritti primati. Chissà se maestri vilipesi e umiliati volessero, tutti,  non solo piccoli eroi,  unire la loro rabbia a quella dei giovani senza futuro per insegnare il riscatto e “farlo”.

Ci stanno piegando con la paura, usiamo la collera sdegnata che ci anima per liberarcene, il torto diventi diritto e l’offesa diventi liberazione.


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