Posted 6 gennaio 2014 in Iran, Slider with 0 Comments
di Giada Neski
Nei primi cento giorni dalla sua entrata in carica, il presidente iraniano Hassan Rouhani è sembrato seriamente impegnato a mantenere una delle sue promesse elettorali: risolvere la controversia sul programma nucleare iraniano e porre fine all’isolamento diplomatico del Paese. Lo scorso 24 novembre a Ginevra è stato firmato dai rappresentanti iraniani e dal gruppo P5+1 – formato da Cina, Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti – un accordo ad interim che limita e monitora il programma nucleare iraniano in cambio di un alleggerimento delle sanzioni contro Teheran. Pochi sono stati, tuttavia, i passi in avanti nei confronti di un’altra delle tematiche alla base del programma elettorale di Rouhani: la questione dei diritti umani.
A settembre una decina di prigionieri politici sono stati rilasciati come gesto simbolico, ma molti ancora sono detenuti in condizioni disumane e, anche sotto il moderato Rouhani, ben poco sembra essere cambiato. Il 19 dicembre l’Assemblea Generale dell’Onu ha approvato una risoluzione che critica l’Iran per le ripetute violazioni dei diritti umani e “l’allarmante ricorso alla pena di morte”, nonché per le “punizioni disumane” come tortura e amputazione degli arti, talvolta persino nei confronti di minori. Inoltre, secondo il centro di documentazione Iran Human Rights, oltre 580 persone sarebbero state condannate a morte nel 2013 e al momento almeno 35 giornalisti sarebbero detenuti. Per quanto riguarda la libertà di culto, mentre gli appartenenti alle cosiddette religioni del libro, quindi cristiani ed ebrei, sono riconosciuti in Iran e hanno anche rappresentanti in Parlamento, altre minoranze religiose, come ad esempio i Baha’i – gruppo monoteista che predica l’unità tra i popoli e che in Iran conta circa 300 mila persone – vengono perseguitate e spesso espropriate dei beni. Che in Iran la condizione dei diritti umani sia critica non è certo una novità, ma spesso non si coglie la profondità delle contraddizioni che animano la sua società.
Per esempio, per quanto riguarda la censura, talvolta è difficile avere chiari limiti della libertà di espressione nel Paese. Social network come Twitter e Facebook sono sì censurati ma, dal momento che buona parte della popolazione riesce comunque ad accedervi attraverso proxy che aggirano i filtri, i politici iraniani si sono visti costretti a creare account “ufficiosi” per la propaganda pro-governativa. Inoltre, di recente le autorità iraniane hanno criticato la decisione di otto europarlamentari di incontrare, durante la prima visita in Iran dal 2007- conclusasi lo scorso 17 dicembre – i due vincitori del Premio Sakharov 2012 per la libertà di pensiero, il regista Jafar Panahi e l’avvocatessa Nasrin Sotoudeh. I due, attivisti secondo la comunità internazionale, “sovversivi” per le autorità iraniane, erano stati arrestati in relazione alle proteste del 2009, quando una “Onda verde” di manifestanti era scesa in piazza contro la rielezione del nazional-populista Mahmoud Ahmadinejad. Oggi entrambi sono stati liberati, ma Sotoudeh non può più esercitare e Panahi, in passato premiato a Cannes e al Berlino Film Festival, ora ha il divieto di girare altri film. Ci si potrebbe quindi aspettare che il nome di Panahi sia un tabù all’interno del Paese; invece le locandine di molti suoi film si trovano appese in bella vista al Museo del cinema di Teheran. L’establishment iraniano diventa sempre più schizofrenico: censura e celebra le stesse personalità fino a creare un equilibrio paradossale e precario.
I vertici della Repubblica Islamica si sono finora giustificati spiegando come la questione dei diritti umani in Iran fosse semplicemente un esempio dell’ipocrisia occidentale, una scusa per interferire nelle questioni interne dell’Iran. Tuttavia la vittoria schiacciante di Rouhani, che in campagna elettorale aveva criticato l’eccessiva ingerenza del governo nella vita privata dei cittadini, ha reso esplicito quanto fosse autoctona questa pulsione per il cambiamento.
Oggi, con la comunità internazionale “distratta” dai negoziati, molti temono che in Iran prevalga l’opzione “gattopardiana”, ovvero che il governo sia disposto a cambiare tutto sul piano diplomatico – recuperando credibilità internazionale – proprio per non essere costretto a cambiare nulla sul piano interno. Questi timori sarebbero più che motivati se la popolazione fosse ancora apatica e disillusa come dopo le elezioni del 2009, a causa delle violenze subìte durante e dopo le manifestazioni dell’Onda verde.
Ma alle ultime elezioni presidenziali, nel giugno 2013, il governo iraniano è riuscito a mobilitare la popolazione promettendo maggiore libertà. Se da una parte in questo modo è riuscito a sconfiggere l’astensionismo e a legittimarsi, dall’altra ora la società civile iraniana resta in fermento e chiede a gran voce cambiamenti non solo in politica estera ma anche sul piano dei diritti civili. Come, ad esempio, la liberazione dei due leader simbolici del Movimento verde, Mir-Hossein Moussavi e Mohammad Hossein Karroubi, agli arresti domiciliari dal febbraio 2011 per aver tentato di organizzare manifestazioni in solidarietà alle rivolte anti-governative nei Paesi arabi.
Finora Rouhani è riuscito a capitalizzare su una generica promessa di cambiamento che non sembra più bastare agli iraniani e nel 2014 la sua amministrazione dovrà dimostrare cosa e quanto sarà nei fatti disposta a cambiare. Occupandosi, più che del diritto dell’Iran ad arricchire l’uranio, dei diritti della società civile.
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