Le operazioni statunitensi in Iraq e il conseguente processo di state-building hanno, secondo molti, riacceso il problema settario nel Paese. Durante gli anni di Saddam le diverse etnie religiose erano sostanzialmente sopite dal regime laico che il partito ba’atista garantiva. Dopo l’operazione Iraqi Freedom il sistema democratico e federale promosso dagli Usa poteva sembrare l’opzione più auspicabile ma in realtà ha risvegliato divisioni e rivalità ancestrali difficili da risolvere.
1. Struttura dello Stato e scenari politici
L’Iraq è risorto, dall’operazione Iraqi freedom, come Stato federale ma unitario, indipendente e sovrano, il cui ordinamento è fondato su un sistema repubblicano. Pur essendo stato diviso in ben 18 province dal 1976, è sempre stato governato in modo centralistico. Semplificando, il paese è divisibile in tre macro-regioni: il nord abitato quasi del tutto da genti curde, il sud occupato da sciiti ed il cosiddetto triangolo sunnita, che raccoglie gli ahl al-sunnah.
Dopo le elezioni per l’assemblea costituente del 31 gennaio 2005, la nuova tappa per passare dalle istituzioni provvisorie irachene a quelle definitive è stata contrassegnata dalle elezioni parlamentari del 15 dicembre 2005 per eleggere i 275 membri dell’Assemblea Nazionale (Majlis al-Watani) permanente. Dopo le elezioni del 2005 il capo dello Stato è il curdo Jalal Talabani che è a capo di un consiglio di presidenza che include un vicepresidente sunnita (Tariq al-Hashimi) ed un vicepresidente sciita (Adel Abd al-Mahdi). Il primo ministro è lo sciita Nuri al-Maliki, del Partito Islamico Da’wa, giunto al governo nella primavera del 2006. Un ruolo informale molto importante è svolto dai capi religiosi, specialmente dai quattro grandi ayatollah sciiti che hanno sede nella città santa di Najaf, fra cui il più influente è Alī al-Sistānī.
Lo scenario politico venutosi a creare dopo la fine di Saddam si può suddividere in quattro gruppi: gli Sciiti, i Curdi, i Sunniti e i partiti laici. Questi si presentarono alle elezioni del 2010 con l’intento di spostare il potere da una minoranza all’altra. Infatti le elezioni hanno segnato un momento storico molto particolare: si è affermata l’idea che la riconciliazione nazionale non si giochi più nella contrapposizione tra sciiti e sunniti, ossia tra influenze Iraniane e dall’Arabia Saudita, ma tra sostenitori di uno Stato unitario e centralizzato (la formazione di al-Maliki) e fautori di uno Stato federale o confederale (i curdi e parte dei sunniti); tra difensori di un approccio laico (Allawi) e difensori di un approccio religioso.
Gruppo Sciita: l’Alleanza Irachena Unita (UIA), la coalizione sciita che vinse nel 2005, non esiste più. Il suo scioglimento ha segnato la spaccatura degli sciiti. La nuova coalizione, l’Alleanza Nazionale Irachena (INA), riunisce i partiti di ispirazione più confessionale, come il Supremo Consiglio Islamico Iracheno (SIIC) guidato da Ammar al-Hakim, la corrente di Muqtada al-Sadr e il partito Fadhila, ma non comprende i seguaci del partito Da’wa. È l’Alleanza per lo Stato di Diritto, che nelle intenzioni ha uno spirito più nazionalista e laico (tanto che ha cercato di coinvolgere alcuni sunniti e curdi), ma che non è riuscita a smarcarsi dai sospetti di stretta dipendenza dal regime islamico di Teheran.
I Curdi: sebbene le formazioni abbiano mantenuto come elemento forte quello dell’identità curda, anche qui lo scenario politico ha subito modifiche. Ai due partiti storici, il Partito Democratico del Kurdistan (KDP) e l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK), si è aggiunto Gorran (Movimento per il cambiamento), guidato da un ex fuoriuscito del PUK, Pusherwan Mustafa. Il movimento, affermatosi alle elezioni regionali di luglio, si presenta come indipendente e come unico oppositore alla corruzione e al clientelismo.
I Sunniti: dopo il boicottaggio del voto nel 2005, scelta che li ha relegati ai margini del processo decisionale del Paese, i sunniti sembrano intenzionati a prendere parte alla competizione elettorale. Formazioni politiche sunnite sono presenti all’interno dell’INM, ma anche sotto forma di liste indipendenti.
I “laici” di Allawi: vero e proprio esordio alle urne, invece, per il Movimento Nazionale Iracheno (INM) guidato dall’ex premier, Iyad Allawi (sciita). La coalizione comprende anche diverse formazioni sunnite e si propone come l’unico reale raggruppamento laico. L’INM rappresenta l’avversario più temibile per l’INA e per la lista di al-Maliki, ed è anche contro di esso che si è abbattuta la controversa campagna di debaathificazione. La coalizione Al Iraqyia, guidata da Iyad Allawi, ha battuto la coalizione sciita del primo ministro uscente al Maliki ottenendo 91 seggi contro 89. Otto mesi dopo le elezioni le forze nazionali hanno raggiunto un accordo per la formazione del governo. L’intesa prevederebbe la conferma del premier uscente, lo sciita Nouri al Maliki, mentre la presidenza del Parlamento andrebbe al Blocco Iracheno (Bi) del rivale Ayad Allawi e quella dello Stato rimarrebbe nelle mani del leader curdo Jalal Talabani.
2. Interessi energetici e strategici
La violenza è riesplosa durante la campagna elettorale e dopo il voto. L’ Iraq resta esposto a tensioni etnico-religiose. Si estende sempre più il numero delle persone che abbandonano l’Iraq. L’ Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr) calcola in 4 milioni (2 milioni all’estero e 2 milioni interni) i profughi iracheni. Gli scontri tra le diverse fazioni provocano circa 300 morti al mese. Gli sciiti costituiscono la maggioranza della popolazione e detengono un potere ottenuto alla caduta del regime filo sunnita di Saddam Hussein e possiedono milizie armate che il governo cerca di ricondurre sotto il proprio controllo. Il movimento sunnita cerca di controbilanciare il ruolo della fazione sciita. La popolazione curda prosegue verso un’indipendenza de facto che mette in allarme il resto del paese. Il sostegno che i Curdi offrono alla parte ribelle oltre il confine turco provoca scontri armati con la Turchia.
Mentre gli equilibri iracheni appaio fragili e la pacificazione sembra un’utopia, la situazione attuale si configura “ideale” per la presenza di società straniere che mirano al controllo delle risorse energetiche. Come promesso nella conferenza di Londra da Ahmad al-Galabi i rapporti petroliferi vengono ridisegnati dalla nuova leadership del paese. Il Paese ha appena raggiunto una produzione di greggio di 3,2 milioni di barili al giorno, il massimo dal 1979, scavalcando l’Iran e diventando il secondo fornitore dell’Opec dopo l’Arabia Saudita1. Secondo un rapporto pubblicato dall’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), entro la fine del decennio la sua produzione potrebbe raddoppiare, costituendo circa la metà dell’incremento atteso per l’offerta mondiale di petrolio. Il petrolio importato lo scorso anno dai paesi arabi OPEC è calato dal 47% del 1980 al 25% del totale2.
Capita spesso di vedere ipotizzato che gli interessi petroliferi abbiano un ruolo fondamentale nell’influenzare la politica estera nordamericana, ma in realtà avviene il contrario, cioè che il petrolio non sia la principale motivazione della politica estera statunitense, ma il più delle volte piuttosto uno strumento di questa politica: spesso gli interessi delle compagnie petrolifere, in particolare di quelle nordamericane, sono sacrificati in nome del perseguimento di obiettivi politici che nulla hanno a che vedere con il petrolio. Negli ultimi anni gli USA hanno utilizzato il petrolio come strumento, puntando in particolare a sfruttare le risorse del Caspio e dell’Asia centrale, perché avevano una priorità politica nel sostenere l’effettiva indipendenza di questi “paesi di nuova indipendenza”, rispetto sia alla Russia a nord sia all’Iran a sud. Nel caso dell’Iraq è stato così per tutti gli anni ’90, durante i quali l’Iraq è stato posto sotto sanzioni con le quali si è impedito alle compagnie di investire e partecipare allo sviluppo delle risorse irachene. Il problema centrale è che i consumi aumentano, la produzione nazionale negli USA declina perché i campi nordamericani sono ipersfruttati, e si prevede che gli USA saranno sempre più dipendenti dalle importazioni di prodotti petroliferi. Si calcola che nel 2030 l’America settentrionale (sostanzialmente gli USA) sarà la regione più deficitaria al mondo, mentre il Golfo sarà l’unico grande serbatoio di petrolio al mondo3.
Mentre gli Usa saldano sempre più le relazioni con il nuovo governo iracheno, la compagnia statale cinese China National Petroleum ha annunciato che la prima fase del giacimento iracheno di Halfaya è entrata in attività e possiede una capacità produttiva di 100.000 barili al giorno. La CNPC è la prima compagnia straniera ad attivare un impianto di produzione in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein, un ottimo risultato per l’impresa cinese, che ha inoltre spiegato come il progetto Halfaya sia entrato in azione 15 mesi prima del previsto. Il giacimento di Halfaya è situato nel sud e contiene riserve di petrolio per un totale stimato di 4,1 miliardi di barili. La CNPC ha vinto il contratto per lo sviluppo di Halfaya durante la gara d’appalto internazionale del 2009, in consorzio con la francese Total e la compagnia statale malese Petronas. Il contratto è stato firmato nel gennaio dell’anno successivo, e prevede la collaborazione delle tre compagnie straniere con la irachena Missan Oil: CNPC detiene attualmente il 37,5% delle quote del consorzio.
Infatti, se da un lato la Cina sta perseguendo negli ultimi anni una strategia definita “del filo di perle”, che prevede il rafforzamento delle relazioni politico-commerciali nei paesi della costa asiatica, dal Mar Rosso fino all’Indocina; dall’altro l’Iraq sembra destinato a diventare una perla particolare, non soltanto per le sue risorse, ma anche per la sua posizione strategica, geografica e geopolitica. Nei prossimi anni, il declino dell’Arabia Saudita come produttore di petrolio non potrà che favorire le esportazioni di greggio irachene, in costante crescita; inoltre, il particolare posizionamento dell’Iraq post-Saddam, ancora vicino agli Stati Uniti, ma sempre più tentato dall’orbita sciita (leggasi Iran), sta destando gli interessi di diversi attori internazionali4. E La Cina non può restare fuori da questo gioco mesopotamico, sia a causa della sua sete di petrolio, sia alla luce degli ultimi eventi in campo internazionale, che l’hanno vista prendere posizione, in sede Onu, a favore della non ingerenza internazionale nella questione siriana. Con gran sollievo per gli interessi iraniani e russi.
Una collaborazione tra emergenti, sembrerebbe, per smussare senza scosse improvvise, ma tramite un lento e costante impegno, l’attuale ordine internazionale; in perfetto stile cinese. L’attrazione definitiva dell’Iraq nell’ambito degli “emergenti” non potrebbe che giovare a queste dinamiche in atto. Restano ancora, tuttavia, diversi nodi da sciogliere, non soltanto di natura interna al paese (prima tra tutti, la questione del Kurdistan), ma anche a livello internazionale; come la vicinanza “forzata” dell’Iraq agli Stati Uniti, destinata a vincolare anche nei prossimi anni le scelte del governo. Basti pensare, per fare un esempio, come l’attuale governo iracheno continui a depositare gli incassi della sua industria petrolifera in conti presso la Federal Reserve statunitense. Nel frattempo, tuttavia, la lunga mano della CNPC non si ferma ad Halfaya. Lo scorso anno la compagnia cinese ha completato la costruzione della prima fase del giacimento Al-Ahdab, con una capacità produttiva di 60.000 barili al giorno. Secondo i termini del contratto stipulato con le autorità irachene, la CNPC porterà la produzione del giacimento a 25.000 barili al giorno nei primi tre anni, e a 115.000 barili al giorno alla fine del sesto anno. La CNCP è presente anche a Rumaila, il maggior giacimento iracheno e il sesto al mondo. Situato non lontano da Basra, il giacimento conta riserve di petrolio per circa 17 miliardi di barili. Nel 2009, la CNPC ha firmato, assieme alla BP, un contratto di servizio tecnico ventennale, del valore di 15 miliardi di dollari, con le irachene State Oil Marketing Organization (SOMO) e South Oil Company (SOC) per aumentare la produzione del giacimento.
Nei confronti dell’Europa l’Iraq predilige l’Italia come testa di ponte per allacciare rapporti bilaterali con l’intero continente. È il bilancio che ne risulta dalla III commissione mista Italia-Iraq che si è tenuta alla Farnesina, il 18 ottobre 2012, alla quale hanno partecipato i ministri degli Esteri Giulio Terzi e Hoshyar Zebari. “Il mercato iracheno – ha sottolineato Terzi – rappresenta una grande opportunità per l’Italia e l’obiettivo è di rafforzare ulteriormente le già eccellenti relazioni economiche bilaterali. Il sistema produttivo italiano è al servizio della modernizzazione e della diversificazione del sistema produttivo iracheno. La stabilità dell’Iraq e delle sue istituzioni sono cruciali per i nostri interessi nazionali che coincidono con la pace e la sicurezza nel Mediterraneo allargato”. In occasione della riunione sono stati firmati due memorandum d’intesa, in materia di ingegneria aerospaziale e culturale archeologica, e sono stati siglati l’addendum al trattato bilaterale sulla Promozione e protezione degli investimenti e l’Intesa sull’estensione del credito di aiuto. Con un interscambio pari a 3,34 miliardi di euro nel 2011 l’Italia rappresenta il primo partner europeo dell’Iraq con le esportazioni italiane che lo scorso anno hanno raggiunto i 490 milioni. Con un impegno finanziario di 3.3 miliardi l’Italia ha avuto inoltre un ruolo di primo piano nella ricostruzione dell’Iraq dopo il 2003.
3. Conclusioni
La maggior parte degli analisti ritiene, in ultima analisi, che gli scenari futuribili in Iraq siano essenzialmente i seguenti:
- a) L’ Iraq si divide in tre Stati: uno curdo, uno sciita e uno sunnita. Quest’ultimo essendo privo di risorse petrolifere.
- b) Il Kurdistan proclama la sua indipendenza.
- c) Si costituisce una struttura federale, con una certa autonomia delle entità che la compongono e una perequazione delle risorse petrolifere.
La pacificazione dell’area, come ribadito nel corso di questo studio, può apparire come un’idea politica nobile che non coincide con gli interessi mondiali in esame. La situazione attuale garantisce la continua ingerenza di numerosi Stati che cercano di controllare i benefici strategici che la regione offre, e di sfruttare uno dei più grandi pozzi petroliferi del mondo. La regione quindi rimarrà divisa grazie ad alcuni attori geopolitici che continueranno ad alimentare le diverse etnie e i conflitti religiosi per mascherare il più grande crogiuolo d’affari del Medio Oriente5.