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Irena ha sei anni e una grande bambola..

Creato il 25 marzo 2012 da Bartleboom
Irena ha sei anni e una grande bambola..
Il 25 marzo 1949 43 mila persone, bambini, donne, anziani, intere famiglie vengono deportate dalla Lettonia in Siberia dal regime sovietico.

Questo blog vuole ricordare quel 25 marzo con un frammento dal libro di Andra Manfelde "Zemnīcas bērni" (I figli della baracca).
Irena ha sei anni e una grande bambola. Forse neppure così grande, ma Irena stessa è così piccola, che la bambola le sembra grandissima. Ci gioca tutta la sera. La veste, la spoglia, la distende, la mette a sedere, l'alza. Suo padre va già a dormire, che ancora Irena è intenta a spogliare la bambola. Dietro la finestra è buio fitto. Il riflesso del viso rotondo della bambola proprio come una piccola luna si riflette debolmente sul vetro. Sembra quasi che attenda il sorgere del sole. Con questa immagine Irena si addormenta.Ma si desta di soprassalto prima dell’alba. E' successo qualcosa di terribile. Qualcosa di tremendo gira nell'aria, con una forza impietosa ha spinto via ogni sguardo, parola, respiro. Lei non osa guardare coi suoi grandi occhi, né chiedere. Lei improvvisamente non è più una bambina, ma un lucertola gettata sul pavimento, giù dove ci sono le scarpe, i giocattoli, e la polvere. La piccola sorella di due anni sta piangendo. Adesso è Irena che deve occuparsene. La mamma è intenta a zittire la piccola Malda, mentre mette in un fagottino alcune cose e piange forte. La nonna Auguste piange, zia Lidija piange. Tutte piangono, ma non rumorosamente, come si fa quando il pianto riesce alla fine ad alleviare la pena. Né come si piange quando si è colpiti da un lutto. Quel pianto è come una neve che copre tutto, come una pioggia che lava. Il pianto di mamma, di nonna, delle zie invece è come un'improvvisa ventata gelida che è arrivata la mattina del 25 marzo, e che fa scomparire tutte le anemoni, gli uccelli di passo, il flusso dei torrenti. Un pianto disperato e agghiacciato. Ma silenzioso. Inarrestabile, e silenzioso.
A tavola siedono degli uomini con i fucili automatici. Kristaps deve firmare. "Esilio a vita". Krispaps si appoggia alla tavola e scrive. Cosa vuoi dire alla morte che ti osserva con gli occhi di un fucile automatico? Protesti? Devi scrivere. Con un solo gesto devi scrivere che rinunci alla casa, ai cavalli nella stalla, alla terra che resterà abbandonata e incolta, agli alberi, che poi cadranno nel sottobosco, alla sicurezza, al futuro, alla crescita, a tutto quello che c’è qui, adesso, si deve rinunciare.
"Esilio a vita". La parola "a vita" quella mattina ha il prezzo, il peso e la durata dell'eternità. "A vita". Ancora tu non sai niente. Nessun respiro futuro. Dov'è ancora quel treno, che sbatte le persone, molecola per molecola, nel vagone, per ogni secondo di umiliazione, affamandole come bestie. Nessuno lo sa ancora. Le donne piangono, i soldati se ne stanno in silenzio. Se tornerai, se resterai vivo all'estero, o ti manderanno indietro, nessuno sa. E se tu non lo sai, tanto meno lo sanno le tue donne. E tu sei curvo sul tavolo, sotto il tiro dei fucili automatici, circondato da un silenzio estraneo, ti mordi le labbra e firmi per la tua vita. Sulle loro giacche di pelle puoi vedere solo il loro nome, ma loro non fanno caso al fatto che questo misero scarabocchiare nasconde molto di più. "Io Kristaps Emīls Manfelds, figlio di Pēters, farò di tutto per mantenere in vita mia moglie Anna, le mie figlie Irena, Lidija e Malda".
*Irena ha sessanta anni, cinque figli, diciassette nipoti e quattro bisnipoti. E' tornata qui nella casa di Kalnieši, stanca per la notte insonne di ricordi ininterrotti, che la mia richiesta gli ha risvegliato. E Irena racconta.
"Ci hanno deportato proprio da questa stanza. Qui papà e mamma dormivano, io invece qui proprio su questo “angolo". Guardo - questa stesso “angolo" della stanza, la finestra, tutto più scuro, sconnesso, ma identico. Tre passi e 60 anni di distanza ci separano da questo posto, di cui Irena adesso parla. Il cuore trema, le tavole secolari del pavimento sembrano risvegliarsi, sembra essere più vicino, davvero vicino a quel momento e a quel giorno, perché la stanza è davvero la stessa, identica e, a quanto pare, il tempo non è onnipotente, specialmente se la memoria umana gli si oppone, specialmente se contro l’oblio tieni fra le mani uno scudo di album di foto.
Irena continua a raccontare: "Eravamo già venuti via da Rolavi, perché papà era riuscito a sapere, in qualche modo, che potevamo essere deportati. Ma poi qualche "benefattore" si vede che aveva detto dove cercarci. Dove altro sarebbe potuto scappare papà! Non poteva nascondersi nella foresta, avrebbero preso mamma. E lei come avrebbe potuto fare, con noi due piccole, e in più un neonato! Sarebbe stata la fine per lei e per noi... Malda, la grande nemica del popolo, compì un anno dopo tre giorni che eravamo chiusi nel vagone del treno. No, non ricordo molto di allora... Ero ancora una bambina, quando spingevano tutti in fila dal vagone giù nei binari per fare pipì, a me non importava, io mi accovacciavo e facevo... Ma come facevano le ragazze più grandi, già signorine, non so.. Erano altri tempi, non come adesso... Le persone si vergognavano di più. C’era un secchio alla porta, da usare. Dicono che ad una fermata lo hanno svuotato addosso ad un soldato. Ma io non l'ho visto...
Erano feroci quei soldati, coi loro cani... Tutto il vagone puzzava, ma noi eravamo bestie, eravamo kulaki. Probabilmente, dovevamo entrare in Russia puzzolenti. Eravamo tanti terribilmente stretti in un solo vagone. Tutto puzzava, tremendamente, i bambini strillavano, gli adulti si mordevano le labbra, erano furiosi perché non sapevano, cosa succederà, dove ci porteranno, cosa faremo... E perché non c'era niente che potevamo fare. Contro chi te la potevi prendere? Contro i fucili automatici? Contro quelli che li tenevano in mano? Per quelli noi eravamo già tutti kulaki. Schifosi sfruttatori. Eravamo affamati, i bambini piccoli piagnucolavano per tutto il vagone, quanto cibo del resto potevi portare da casa! Ma da una parte del vagone si sentiva profumo di lardo. Una famigliola mangiava di nascosto il loro pezzo di lardo e il profumo si spargeva per tutto il vagone. Me lo ricordo. Quanto a lungo viaggiamo, non so. Fu lungo. Forse due settimane, non so. Buio come l'inferno e puzzo ovunque. Qualcuno fra di noi era già morto. Ma io ero solo una bambina. E la mia bambola era rimasta a casa. A guardare dalla finestra verso est.”
Andra Manfelde "Zemnīcas bērni" (traduzione Paolo Pantaleo)

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