Si può finire in galera per avere scritto su Facebook «sono ateo»? Si può. Alexander Aan, un trentenne indonesiano che ha dichiarato pubblicamente il proprio ateismo in un post sul social network, è stato condannato in Indonesia a due anni e sei mesi di prigione con l’accusa di avere incitato all’odio religioso, per avere condiviso immagini e frasi ironiche sulle religioni in generale e sul profeta Maometto in particolare. In questo giugno 2012 il caso ha scatenato polemiche e interventi delle organizzazioni per i diritti umani, sia a livello internazionale sia nella stessa Indonesia, Paese che riconosce libertà di culto a varie religioni (non solo Islam ma Cristianesimo, Buddhismo, Confucianesimo e Induismo) però vieta di sostenere pubblicamente l’ateismo in quanto ritenuto lesivo dei diritti dei credenti.
I media di tutto il mondo occidentale hanno rilanciato la notizia rappresentando per l’ennesima volta l’Indonesia come un Paese dominato dall’integralismo islamista e rappresentando l’Islam come antitetico alla libertà di espressione. Ma è davvero così? La questione è più complessa. L’Indonesia è un gigante asiatico – costituito da 17.000 isole per un territorio vasto 6 volte l’Italia – con uno straordinario mix di etnie, culture e religioni diverse, dove al democrazia sta lentamente ma progressivamente consolidandosi e dove la maggioranza dei musulmani non ha affatto tendenze “radicali” o estremiste. Lo chiarisce bene la studiosa Valeria Martano nel capitolo “L’Islam democratico” all’interno di un nuovissimo libro di cui raccomando la lettura: Indonesia. Passaggio a Sud-Est (a cura di Romeo Orlandi, edizioni il Mulino/Arel, pp. 255, euro 20).
Scrive Martano: «Il fatto che il Paese “più musulmano” del mondo in termini di popolazione – l’85% di 240
milioni di persone secondo l’ultimo censimento – al termine di una significativa e tutto sommato incruenta evoluzione politica non sia divenuto una teocrazia ma la terza democrazia del mondo, dopo l’India e gli Stati Uniti, spinge ad indagare di più su quello che è stato definito il “modello indonesiano”. Il quale, pur nei limiti storici che ne hanno accompagnato la realizzazione, e l’indubbia difficoltà di che una realtà così complessa e multiforme pone a una coabitazione fra diversi, ha l’indubbio merito di aver messo la cultura del convivere a fondamento della nazione.L’Islam indonesiano, al pari dell’arcipelago in cui è radicato, è profondamente plurale. Una parte largamente maggioritaria non solo convive con le istituzioni democratiche ma in qualche caso ne è stato il centro propulsore, come è stato evidente a più riprese nella storia della nazione, e in particolare durante la dittatura militare. Non si può ignorare l’esistenza di gruppi che – benché minoritari – avallano tendenze islamiste, provocando tensioni interreligiose e interetniche, e non sono esenti da collusioni con il terrorismo internazionale. Tuttavia, a dispetto di una vulgata che vorrebbe l’Islam incompatibile con i processi democratici, è innegabile che nella storia dell’Indonesia esso ha giocato come un elemento di favore, piuttosto che di ostacolo, al processo di evoluzione della società verso la democrazia».
Ma il tema del rapporto fra Islam e democrazia è solo una delle molte ragioni di interesse nei confronti di questo libro. L’Indonesia è ormai da annoverarsi fra i “giganti asiatici” anche sul piano economico e politico, dato che dal 2011 fa parte del gruppo dei G20 e ha una crescita annua oscillante fra il 6% e il 7%. Uno sviluppo economico che non manca di attrarre imprese anche dal nostro Paese, e opportunamente una delle sezioni in cui è suddiviso il libro – intitolata L’Indonesia e l’Italia – ospita vari interventi dedicati alle opportunità per le aziende italiane e alla percezione del “made in Italy” nel Paese asiatico.
Più in generale, valgono le osservazioni del curatore del volume, Romeo Orlandi: «Per la prima volta nella sua storia l’Indonesia si trova nella condizione di sconfiggere un passato di arretratezza se non di indigenza. Lo sta facendo attraverso due strumenti cardine: la riscoperta della propria tradizione culturale e la valorizzazione del processo democratico…..L’eccezionalità del suo esperimento è stata proprio l’acquisizione di di una regolarità finora negata. Confinare gli ambiti dell’esercito, liberalizzare la stampa, includere compiutamente la comunità cinese, avviare il dialogo interreligioso, costruire buone relazioni con i Paesi vicini, immaginare un’Asia di pace e prosperità sembravano propositi velleitari fino a pochi anni fa. Al tentativo dell’Indonesia, pur nella complessità di un viaggio travagliato, va il merito di averli resi almeno immaginabili».