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Islam politico e “primavere arabe” (di Cambronne)

Creato il 18 novembre 2011 da Conflittiestrategie

La vittoria del partito islamico moderato (o sarebbe meglio dire “riformista”) En-Nahda (“Rinnovamento” o “Rinascita” in arabo) alle elezioni per l’assemblea costituente tunisina ha riacceso la polemica sulla cosiddetta “primavera araba” e sul ruolo dei movimenti islamisti nei sommovimenti che da quasi un anno hanno sconvolto, e stanno ancora sconvolgendo, gli equilibri politici molti paesi arabi, dal Maghrib (l’ “occidente arabo” nordafricano) al Mashriq ( l’ “oriente”, l’area che meglio conosciamo sotto il nome di “Medio Oriente”).

Riguardo al ruolo dei movimenti islamisti (intendiamo qui per “islamismo” una determinata corrente politica e non l’Islam in quanto religione o civilità) sembra essersi fatta strada qui in occidente, e in Italia in particolare, un’interpretazione che sovrastima l’importanza di tali movimenti.

Secondo questa interpretazione, diffusa da una buona parte della stampa di “centrodestra” (in primis “Il Giornale”, “Libero” e “Il Foglio”, quest’ultimo in particolare legato alla visione del mondo del neoconservatorismo israelo-americano), le “primavere arabe” altro non sono che l’anticamera per la salita al potere da parte dei movimenti islamisti sunniti, che hanno già preso il potere per via democratica in Tunisia, che già dialogano con il regime militare egiziano succeduto alla cacciata del “faraone” Mubarak e che condizionano pesantemente le decisioni del nuovo governo libico post-gheddafiano; la “primavera araba” sarebbe una “rivoluzione di febbraio” in salsa araba che prepara l’avvento dei più radicali e organizzati movimenti islamisti, i “bolscevichi” della situazione.

Secondo questa visione “catastrofista” diffusa presso l’opinione pubblica di centrodestra la causa principale dell’avanzata dell’islamismo è principalmente da ricercare nella supposta debolezza dell’amministrazione americana e del Presidente Barack Obama in particolare, che abbandonando le politiche energiche del (quasi) decennio di amministrazione repubblicana ha aperto le porte alle “forze del male”.

Questo tipo di lettura sembra riecheggiare le analoghe preoccupazioni dei conservatori occidentali, italiani compresi, di fronte alla ritirata americana dal Vietnam nel 1975 e di fronte agli apparenti successi del campo comunista non solo nel Terzo Mondo (“comunistizzazione” del Vietnam, dell’Angola, dell’Etiopia e del Nicaragua fra il ’75 e il ’79) ma anche nell’Europa occidentale (avvicinamento al potere dei comunisti italiani e portoghesi).

Quello che allora gli osservatori anticomunisti occidentali non colsero fu che l’apparente ritirata degli USA di Carter, dietro al quale c’era un Segretario di Stato del calibro di Zbignew Brzezinsky (ora non a caso vicino ad Obama!), da una politica anticomunista muscolare consentì agli statunitensi di approfondire ulteriormente il dissidio inter-comunista (in verità già sfruttato da Nixon e da Kissinger) fra Sovietici e Cinesi, e fra i rispettivi stati clienti come il Vietnam e la Cambogia, e di porre le basi per un riallineamento internazionale dei partiti comunisti dei paesi dell’Europa Orientale sovietizzata e soprattutto del più importante Partito Comunista occidentale, quello italiano di Enrico Berlinguer, che proprio a partire dalla seconda metà degli anni ’70 iniziò quel processo di smarcamento dall’URSS e dall’ortodossia comunista che sarebbe culminato nel 1989 con l’abbandono del comunismo e con la fondazione del Partito Democratico della Sinistra.

I frutti di questa vera e propria ritirata strategica americana dei tardi anni ’70, che in realtà precedette l’aggressivo rilancio reaganiano del decennio successivo, non furono né la comunistizzazione del Terzo Mondo né la sovietizzazione dell’Europa occidentale, ma bensì il crollo del blocco sovietico eroso dall’interno da dissidenza e stagnazione economica, con conseguente allargamento della NATO ai paesi dell’ex Patto di Varsavia, la “riconquista” del Vietnam da parte del capitale americano e il pressoché totale allineamento agli interessi atlantici dei post-comunisti italiani, gli stessi che (nemesi della storia!) ora imputano a Berlusconi un eccessivo allineamento alla Russia.

Oggi è sicuramente ancora troppo presto per valutare gli effetti della nuova politica obamiana di appoggio alle “primavere arabe” (e a meno telegeniche e politicamente corrette forze insurrezionali armate!), e non è da escludere che l’eterogenesi dei fini possa anche produrre il rafforzamento di correnti e movimenti politici anti-imperialisti di matrice islamica, ma allo stato dei fatti sembrano essere più probabili evoluzioni diverse dalla paventata creazione di un’asse antioccidentale che secondo alcuni partirebbe da Tunisi per arrivare all’Iran, passando attraverso il nuovo Egitto dei militari, la Turchia “neo-ottomana” di Erdoğan e la Strisca di Gaza in mano ad Hamas.

Nella ben più complessa realtà la destabilizzazione “assistita” da Washington  dell’arco nordafricano-mediorientale sta producendo l’effetto contrario di far divergere sempre di più le strategie di poli di potenza regionale che fino a qualche tempo fa sembravano avviate verso un’intesa “eurasiatica”.

Un esempio di ciò è l’intenso attivismo della Turchia di Erdoğan, che ha entusiasticamente appoggiato i rivolgimenti in Tunisia, Libia ed Egitto e che ora è fra i più attivi sostenitori della ribellione in atto in Siria, tanto da ospitare esponenti dell’opposizione al governo di Assad e, secondo alcune fonti, da fornire assistenza militare ai reparti ribelli dell’esercito siriano.

La politica di Ankara di attivo sostegno alla ribellione siriana, contraddicendo una politica di riavvicinamento al regime baathista perseguita fino a un anno fa, rischia di compromettere seriamente i rapporti con due dei più importanti partner di Damasco: la Russia, che ha già dichiarato di opporsi ad uno scenario “libico”, e l’Iran, entrambi paesi con i quali la Turchia sembrava voler cercare un’intesa geopolitica.

Lo stesso attivismo filo-palestinese della Turchia, fino ad ora più retorico che concreto, sta creando non pochi problemi alla Repubblica Islamica dell’Iran, fino ad oggi sostenitrice della linea dura contro Israele e punto di rifermento di tutti i movimenti palestinesi radicali, anche di Hamas, che pur essendo un’organizzazione sunnita e legata ai Fratelli Musulmani aveva in Tehran una valida sponda politica.

La vittoria elettorale in Tunisia di un partito islamico sunnita affine alla Fratellanza Musulmana, e il contemporaneo rafforzarsi della tendenza islamica sunnita, anche se “riformista”, in tutto il mondo arabo e in Turchia, potrebbero quindi privare Tehran di un importante strumento di influenza nella politica medio orientale.

La creazione di un nuovo “scisma” (geopolitico prima che strettamente religioso)  fra iraniani e sunniti arabi e turchi all’interno del campo islamico non farebbe che rafforzare il campo atlantista e israeliano, vanificando o comunque depotenziando anche l’eventuale comparsa di tendenze genuinamente anti-imperialiste in seno ai movimenti sorti dalle “primavere arabe”.


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