Noi che quotidianamente ci riscopriamo avvezzi a messaggi catastrofisti, nuotando in acque d’improvviso fattesi torbide e melmose, noi sull’orlo del collasso e dell’implosione dettata dal progressivo sgretolarsi di certezze per tanti, troppi anni credute indissolubili. Noi, popoli mainstream, abituati a scimmiottare il vacuo luccichio di traballanti egemonie culturali. Noi che, con le spalle al muro, imprigionati dal nostro sorriso inebetito dall’ignavia e dalla schiavitù intellettuale, spesso ignoriamo svolte importanti, barlumi di futuro luccicanti come il ghiaccio, o come il fuoco.
Ghiaccio e fuoco, binomio che da sempre fa dell’Islanda, quell’isola al confine del globo, una terra tanto unica e suggestiva. Un’Islanda che lancia segnali al mondo. E stavolta non c’entrano vulcani dai nomi impronunciabili, o scorci mozzafiato. Questa volta è il popolo islandese che, interrogandosi sulla Natura umana, ha compiuto e sta compiendo tutt’ora la sua personalissima “operetta morale”. Un’operetta d’arte. Già, perché a quanto pare il Fondo Monetario Internazionale non si occuperà più degli affari economici di Stato, lasciando ai discendenti dei vichinghi piena libertà di agire nel prosieguo del “salvataggio nazionale” resosi necessario dopo le devastazioni che la Crisi ha prodotto nell’isola dei geyser.
Il premier Johanna Siguroardottir ha annunciato attraverso una conferenza stampa nei giorni scorsi che il FMI non intaccherà il laborioso processo di “resurrezione”, dopo lo tsunami finanziario a livello globale che non ha certo risparmiato l’isola scandinava nel biennio 2008-2009. Processo che, a dispetto del resto d’Europa (dove i vari stati si barcamenano tra menzogne raccatta-voti e impietosi diktat internazionali) si è sviluppato valorizzando quel concetto di Stato Sociale che ormai altrove sta diventando un miraggio, strozzato dalle folli direttive anticrisi volute dagli stessi uomini che questa crisi l’hanno provocata.

«Noi la Crisi non la paghiamo», recitava uno slogan dell’Onda, all’inizio del periodo di recessione. Uno slogan con niente dietro. Noi lo scrivevamo, loro l’hanno fatto, dicendo «Europa? No, grazie». Non sarà facile sfuggire alle grinfie del FMI, che si riproporrà a suo modo, come aguzzino travestito da consolatore, scottato dalla fuga.

Probabilmente è più facile organizzare cambiamenti così radicali per una piccola isola come l’Islanda, ma altrettanto probabilmente non è pretenzioso pensare di poter ancora trovare un percorso alternativo al modello novecentesco della lotta per le strade. Non pretenzioso? Forse. O forse è davvero pretenzioso, per noi che mangiamo pappe pronte e impacchettate da chi decide il volume e la sostanza della nostra conoscenza indotta, comprendere di poter essere il cambiamento, più che sperarlo o invocarlo.
(Pubblicato su “Il Fondo – Magazine di Miro Renzaglia” del 12 settembre 2011)