(pubblicato su FareItaliamag il 9 settembre 2011: anche se in effetti sarebbe dovuto uscire prima di quest’altro)
Il “piano B” della Turchia contro Israele è scattato venerdì scorso: una serie di misure – diplomatiche, ma non amichevoli – come ritorsione per il rifiuto di scusarsi per l’eccidio della Mavi Marmara. Le ha annunciate direttamente il ministro degli esteri Davutoğlu, nel corso di una conferenza stampa ad Ankara convocata in tutta fretta dopo che il “rapporto Palmer” – il documento finale della commissione mista istituita dall’Onu, di cui è stata più volte rimandata la pubblicazione per permettere alle parti una riconciliazione – era stato diffuso sul sito web del New York Times. Cinque i punti annunciati dal capo della diplomazia turca: primo, il declassamento dei rapporti diplomatici al livello di secondi segretari e la conseguente espulsione del personale diplomatico di grado superiore; secondo, il congelamento di tutti gli accordi militari vigenti e delle esercitazioni congiunte (nei fatti sospese dalla prima crisi turco-israeliana dopo la guerra di Gaza del dicembre 2008), con l’accessorio divieto per l’aviazione israeliana di sorvolare lo spazio aereo turco; terzo, la richiesta alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja – con l’appoggio della Lega araba e possibilmente dell’Assemblea generale dell’Onu – di un’opinione sulla legalità del blocco di Gaza; quarto, il sostegno in sede giudiziale per le famiglie delle nove vittime della Mavi Marmara; quinto, non meglio specificate misure per assicurare “la libertà di navigazione nel Mediterraneo orientale”: l’unico punto che innova – e che crea reali rischi di escalation – rispetto all’attuale situazione di pressoché irrecuperabile deterioramento di quella che fino a due anni e mezzo fa era una “partnership strategica”.
L’inconciliabilità delle rispettive posizioni è resa palese dal modo in cui i due paesi hanno accolto il rapporto Palmer: con soddisfazione e alcune robuste riserve da parte israeliana, con un totale rigetto – “privo di valore”, lo ha definito il presidente Gül – da parte turca. Il documento di 105 pagine poi consegnato al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon e ufficialmente reso pubblico, in effetti, appare come un maldestro tentativo di trovare un compromesso a tutti i costi, senza peraltro riuscirci: è il frutto della fusione delle rispettive indagini interne senza ulteriori approfondimenti degni di nota, reputa legali il blocco di Gaza e le misure per imporlo, giudica “eccessivo e irragionevole” l’uso della forza dei commandos israeliani – pur se hanno agito in autodifesa – a bordo della nave turca. Torti e ragioni, un po’ agli uni e un po’ agli altri.
Le contestazioni della Turchia sono sostanzialmente due: da una parte, la commissione Palmer (composta, oltre che dall’ex premier neozelandese, dall’ex presidente colombiano Uribe e dai due rappresentanti di parte) è priva di ogni potere giurisdizionale: non spetta a lei statuire sulla legalità o meno del blocco di Gaza, tanto più che un panel di esperti nominato dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu è giunto un anno fa a conclusioni diametralmente opposte; dall’altra, la ricostruzione dei fatti è estremamente lacunosa e lascia inevasi alcuni dei punti più spinosi: l’effettiva intenzione della Mavi Marmara – che le autorità di Ankara sostengono di aver comunicato a quelle di Tel Aviv – di deviare verso l’Egitto una volta arrivata in prossimità delle acque territoriali di Gaza (l’abbordaggio è avvenuto in acque internazionali, molto al largo), l’effettivo momento in cui i soldati israeliani hanno iniziato a sparare.
Le richieste della Turchia rimangono immutate: le scuse, il risarcimento per le vittime, la fine del blocco di Gaza. E in effetti, sono state condotte a più riprese trattative riservate – con prese di posizione anche pubbliche – per arrivare a un’intesa (in cambio la Turchia avrebbe rinunciato a ogni iniziativa giurisdizionale): possibilista il ministro della difesa Barak, assolutamente contrario il ministro degli esteri Lieberman, indeciso il premier Netanyahu, contrari anche tutti quelli che ritengono le eventuali scuse insufficienti a superare la crisi. Infatti, Israele e Turchia sono divise non solo e non tanto dai giudizi su quanto accaduto sulla Mavi Marmara e sul rapporto Palmer, ma piuttosto dalla percezione del proprio ruolo nel Mediterraneo orientale: perché Ankara reputa l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza un ostacolo insormontabile verso la creazione di un nuovo Medio oriente democratico e prospero, a cui offrirsi come guida e fonte d’ispirazione. E in effetti, nella regione è in corso un riallineamento geopolitico: più che altro tattico, quello israeliano verso Cipro e Grecia (proprio domenica è stato siglato un accordo di cooperazione militare greco-israeliano); strategico, quello turco verso l’Egitto: e già la prossima settimana è prevista la visita di Erdoğan al Cairo per firmare uno storico trattato di partnership, con possibile – e politicamente incendiaria – tappa a Gaza.