(già pubblicato qui qualche giorno fa…)
Dal 13 ottobre – e fino al 12 dicembre – Istanbul è la capitale mondiale della creatività. La prima edizione della Biennale del design è stata voluta e organizzata dalla Iksv, la fondazione che raggruppa i grandi imprenditori turchi attivi da 40 anni nel mecenatismo di alto profilo: dalla musica al cinema, dall’arte contemporanea al teatro, dalla preservazione del patrimonio storico al finanziamento di progetti culturali – a Istanbul, nel resto della Turchia, all’estero. Il tema che lega tra loro le molteplici attività della manifestazione è stato suggerito da Deyan Sudjic, direttore del museo del design di Londra e membro del comitato scientifico della Biennale di Istanbul: l’imperfezione (kusurluluk, in turco), perché una delle qualità speciali della ex capitale imperiale – città fatta di innumerevoli strati vecchi persino 8500 anni, resa dinamica dalle rapide trasformazioni urbane e sociali – è la capacità di trarre vitalità creativa per la sua espansione anche economica “dall’imperfetto, dall’inesatto, dal provvisorio”.
L’identità in perenne trasformazione ed evoluzione (o involuzione, a volte) della città sul Bosforo è esaminata in due grandi due mostre: allestite nell’ex scuola della comunità greco-ortodossa di Galata appositamente restaurata e nell’Istanbul Modern (il museo di arte contemporanea inaugurato nel 2004), che insieme accolgono i lavori di circa 300 architetti e designers provenienti e attivi in 46 paesi. La prima è stata curata da Joseph Grima, direttore di Domus: “Adhocracy”, una riflessione attraverso 60 progetti non tanto sugli oggetti ma sui processi di creazione e realizzazione. L’idea di fondo – coniugata in linguaggi e stili diversissimi, in cinque piani luminosissimi e spaziosi (terrazza con vista compresa) – è che si sta compiendo una terza rivoluzione industriale: e che sempre più i network, l’open source, la cultura hacker, le manipolazioni, l’attivismo politico fondato sulle trovate di geniale comunicazione, le produzioni “dal basso” e nel giardino di casa, le piattaforme di collaborazione, stanno stanno prendendo il posto del design industriale degli oggetti in serie per le masse, apparentemente perfetti più che flessibili e adattabili – l’ad hoc del titolo. Una rivoluzione che è tecnologica, culturale, sociale: che rende l’utente parte attiva e non più target passivo del design. Dal top-down al bottom-up. Un esempio tra i più suggestivi è il video che documenta le attività del collettivo di attivisti UX (Urban eXperiment): che ha riparato autonomamente, di nascosto e senza chiedere autorizzazioni e permessi, l’orologio del Pantheon di Parigi da troppo tempo rotto e fermo.
All’inno alla creatività di Grima, un manifesto per il futuro, fa da contraltare la tetra messa in scena dell’architetto turco Emre Arolat: che si è invece concentrato, in uno spazio ristretto e caotico, sui catastrofici rischi di implosione e di distruzione del tessuto sociale dei progetti di sviluppo urbano a Istanbul, messi a confronto con analoghi processi altrove. Il titolo della mostra è tutto un programma: “Musibet”, che può significare disastro (o peste), o “esperienza difficile” e per questo istruttiva; si viene accolti dalle sbarre di una prigione: e dentro vengono raccontati minuziosamente i rischi alla vivibilità creati da scarsa pianificazione, da costruttori rapaci, da progetti di riqualificazione urbana che ignorano gli abitanti, da complessi residenziali per ricchi isolati dalla comunità, dal rispetto scarso per la natura e per la storia, dal sovrappopolamento e dal traffico paralizzante. Secondo il professor Güven Sak, direttore del think tank Tepav, l’assenza di una strategia ben definita di sviluppo urbano – le spese per l’acquisto di immobili drenano i risparmi privati – pone un freno alla crescita economica, nel 2012 stimata al 3,2% dopo il + 8,5% del 2011; mentre il 5 ottobre il premier Erdoğan ha lanciato un piano del valore di 300 miliardi di euro per la demolizione e adeguamento – nei prossimi 20 anni – di circa 6 milioni e mezzo di edifici – privati e pubblici – considerati ad alto rischio sismico. Lo slogan perfetto è quello massimamente provocatorio di Aydan Çelik: “Inşaat Ya Resulullah” tra due grattacieli in costruzione, la copertina di una rivista trasformata in gigantografia (“Costruzione, o Messaggero di Allah”), invece del canonico “Şefaat Ya Resulullah” (“Intercedi, o Messaggero di Allah”) che campeggia nel periodo del Ramadan sui festoni di luci tesi tra due minareti. Arolat ritiene che il cambiamento stia avvenendo in modo troppo veloce e senza regole: e che andrebbe invece governato, coinvolgendo gli esperti e i cittadini; “dobbiamo fermarci e riflettere”: un invito rivolto soprattutto alla politica.
Il presidente di Iksv, Bülent Eczacıbaşı, ha espresso un’idea molto simile intervenendo nel corso della cerimonia di apertura, a cui hanno preso parte il ministro per gli affari europei Egemen Bağış e quello della cultura e turismo Ertuğrul Günay: “abbiamo bisogno di città concepite meglio, abbiamo bisogno di prodotti concepiti meglio”. E ha poi aggiunto qualcosa di molto più rilevante, una formula che riassume un programma economico: l’auspicio di passare presto “dal made in Turkey al designed in Turkey”, di trasformarsi – con l’Italia come modello da imitare e concorrente da sopravanzare – da paese dei manufatti a basso valore aggiunto a paese delle idee creative ad altissimo valore aggiunto, della ricerca, dell’innovazione, della creatività. La moda, il design, il lusso: un’industria che, ancora in fase embrionale, vuole crescere rapidamente; e la Biennale del design, se saprà imporsi sulla scena internazionale, potrà rappresentare una vetrina preziosissima per i professionisti turchi, spesso impegnati all’estero ma con solide basi a Istanbul: anche il governo, che ha concesso uno stanziamento irrisorio (a coprire il 5% dei costi) per la prima edizione, ha promesso di fare molto di più per quelle successive. Il governo, del resto, sta favorendo gli investimenti nell’innovazione grazie a una serie di incentivi e altre facilitazioni: e dal 2009 sono stati creati 130 centri per la ricerca e lo sviluppo, che hanno creato quindicimila nuovi posti di lavoro altamente qualificati (nei settori dell’automazione, delle nuove tecnologie, della farmaceutica, della difesa).
Alle due mostre di più alta visibilità fanno già da contorno una serie inesauribile di attività, in ogni angolo di Istanbul: seminari, workshop, conferenze accademiche, proiezioni cinematografiche, passeggiate guidate nel mondo del design (alla scoperta di artigiani, ateliers, spazi di produzione, negozi) per una visione alternativa dei quartieri di Istanbul. In totale 514 progetti, ben distribuiti tra turchi e stranieri; il tema è sempre lo stesso: l’imperfezione, la creatività, l’innovazione, la città e l’economia del futuro. Ma colpisce il forte coinvolgimento delle università e dei giovani: 26 facoltà di architettura, design e comunicazione hanno messo in calendario mostre e conferenze, circa 250 studenti universitari – in vista della Biennale – hanno partecipato a 12 workshops (i loro lavori sono esposti nelle università aderenti). Il palcoscenico principale, quello di “Adhocracy”, è stato conquistato anche da studenti italiani: dal collettivo Autlab di RomaTre, per un progetto sui lavori dell’architetto Giancarlo De Carlo, socialista libertario e “partigiano dell’architettura”; sono rimasti sorpresi – Olivia e Daniele, incontrati il giorno dell’inaugurazione – dal ruolo propulsivo che è stato assegnato giovani e agli studenti, “qualcosa che in Italia è impensabile perché è tutto in mano alle solite persone, ai mostri sacri.” Forse questa è la vera lezione da trarre dalla Biennale di Istanbul: il futuro costruito sui giovani e non sulle rendite di posizione.
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