Istanbul è candidata a ospitare i Giochi olimpici del 2020. E’ la quinta volta praticamente di seguito che ci prova, le altre quattro è sempre stata bocciata in partenza; ma stavolta è arrivata almeno in finale, contro Tokyo e Madrid: il Comitato internazionale olimpico (Cio) prenderà la decisione finale a settembre: e nonostante i favori del pronostico siano altrove, la speranza concreta di vincere c’è tutta. Proprio in questi giorni, una delegazione del Cio è stata in città: e politici, uomini d’affari, dirigenti sportivi, giornalisti e volontari si sono mobilitati e prodigati per dar loro la migliore presentazione possibile; sono stati organizzati briefing sui progetti e visite guidate agli impianti già esistenti, con un programma sociale – cene e intrattenimenti vari – di sicuro impatto. E i membri della delegazione sono infatti sembrati del tutto soddisfatti.
A me sinceramente non è piaciuto lo slogan, annunciato dal ministro dello sport e della gioventù – Suat Kılıç – come se dovesse rivelare il quarto segreto di Fatima: “Bridge Together” (“ponte insieme?”), che tra l’altro in inglese non ha neanche troppo senso, giocando su Istanbul come città su due continenti, dell’incontro tra oriente e occidente; e del resto neanche mi piace troppo il logo, concettualmente troppo scontato e graficamente troppo arzigogolato: un tulipano che racchiude il Bosforo e la silhouette della città.
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