Da questo discutibile principio deriva la convinzione che alcune discipline debbano essere eliminate dalla scuola: latino, greco, filosofia, storia dell'arte, storia e geografia, insomma le materie umanistiche, sono additate come inutili zavorre e sempre meno si è disposti a riconoscere che, al di là del fatto che su di esse si fonda quella cultura generale che ci eleva da un imbarazzante stato di insipienza, le loro peculiarità epistemologiche permettono di allenare la mente al ragionamento non meno delle materie scientifiche. C'è come l'idea che parte del sapere debba essere sfrondato, ridotto all'osso o del tutto cancellato in quanto inutile, ma vien da chiedersi quanta stima abbiamo per noi stessi se pensiamo di essere più preparati, maturi e competitivi sapendo meno e riconoscendo che nella nostra testa non c'è spazio per questo o quello. Il vero progresso avviene aggiungendo cultura o trasformando i dati di quelle forme di sapere che richiedono di essere adattate ai tempi, ma non è mai legato ad una eliminazione della cultura stessa. Come abbiamo già avuto modo di constatare, l'utilitarismo non produce alcun progresso nella conoscenza, ma non fa altro che danneggiarla e standardizzare il sapere attorno a pochi argomenti che si credono vitali, a scapito di una cultura più vasta e articolata.
Il problema è che, in conseguenza di questo modo di ragionare, si tende ad identificare la scuola con un corso di formazione professionale finalizzato alla produzione del lavoratore, ritenendo di poter stabilire anticipatamente cosa gli serva saper fare e cosa, invece, sia un orpello inutile. E il mondo del lavoro, in effetti, si aspetta che gli istituti scolastici facciano da ufficio di collocamento, sfornando figure perfette per le mansioni che vengono offerte, salvo poi inquadrarle come stagisti e apprendisti a vita o, almeno, fino al termine del beneficio degli sgravi fiscali. Ci sono aziende che non esaminano i curricula che neodiplomati e neolaureati consegnano personalmente e che attingono alle banche-dati delle scuole per farsi suggerire candidati, direttamente (con pratiche che, se non violano le norme sulla privacy, poco ci manca) o attraverso portali cui spesso i laureandi sono costretti ad iscriversi - cedendo dati e autorizzazione al trattamento degli stessi a fini statistici - per poter presentare la domanda di conseguimento del titolo. Insomma, le strutture che erogano istruzione sono ormai intese come uffici del lavoro e ci si aspetta che esse producano il lavoratore perfetto, nel senso etimologico di completo, ultimato, pronto all'uso.
Non voglio certo dire che non sia importante il legame fra la scuola e il mondo del lavoro, ci mancherebbe altro. Però, ecco, ritengo che dovremmo realizzare quale sia la vera portata della scuola, che non serve a formare il lavoratore, ma il cittadino. Un titolo di studio concretamente spendibile in un impiego è certo apprezzabile ed è bene che, nella formazione del singolo, si sviluppino anche attitudini che torneranno utili più o meno direttamente nello svolgimento di una professione, ma una scuola serve a formare individui consapevoli, capaci di sfruttare risorse intellettuali anche al di fuori del lavoro, dalla vita privata al tempo libero, dal momento in cui sottoscrivono un contratto di utenza a quello in cui si recano alle urne.
L'istruzione non è puramente uno strumento per scrivere curricula, ma una palestra per il pensiero, l'autonomia e la dignità di ciascun individuo. Pensare di sfrondare i percorsi di studio dalle materie che odorano di passato anziché chiedersi come strumenti datati possano aiutare a produrre lo scopo di fornire tale indipendenza critica è a dir poco grottesco. Eliminare lo studio delle lingue classiche perché la nuova frontiera è costituita da un italiano ai limiti della decenza o dall'inglese sarebbe come decretare l'inutilità delle quattro operazioni perché ormai i calcolatori fanno tutto al posto nostro.
Insomma, appiattendo le menti delle persone sulle quattro nozioni utili ad effettuare un lavoro non solo si travisa il principio tutelato a livello europeo della capacità di reperire, assemblare, smontare e riorganizzare il sapere in conformità alle diverse situazioni in cui ci si trova ad operare (professionalmente e non), ma si creeranno degli individui dalle funzionalità mentali ridotte e applicabili sono a determinate operazioni: se la scuola forma ragionieri, vogliamo davvero che questi sappiano soltanto calcolare bilanci e compilare fatture o ci aspettiamo che sappiano manipolare un sapere anche differente, nell'ottica di una più ampia visione culturale, umanamente auspicabile? Se un'università sforna un ingegnere informatico la formazione può dirsi completa se questi non ha alcuna consapevolezza degli strumenti della comunicazione prima dell'era digitale? Ma questo vale anche per gli umanisti, giacché nessuna forma di sapere può dirsi completa in se stessa: chiunque di noi resterebbe basito di fronte ad un dottore in filologia che non avesse alcuna dimestichezza con un computer e le sue principali funzionalità. Il profilo umano e professionale adatto alla modernità, dunque, non è quello dello specialista arroccato sui capisaldi della propria disciplina, ma quello di un individuo aperto al sapere nelle sue varie forme. È a dir poco paradossale che, nell'era in cui gli orizzonti sociali, economici e culturali si espandono, la nostra idea di cultura, formazione e professionalità sia ridotta ad un cerchio ristretto al di fuori del quale siamo già ignoranti.
Mi amareggia l'elogio della semplificazione di cui si vanta tanto anche il mondo politico. Sembra che semplificare in ambito culturale sia una missione auspicabile in un mondo che, al contrario, è sempre più complesso e in cui il sapere rivela tutta la sua magmaticità e la sua polivalenza. Ma c'è di peggio: che lo Stato eroda l'offerta formativa scolastica con la scusa di renderla più conforme alle aspettative dei datori di lavoro è un'enorme offesa al diritto allo sviluppo culturale del singolo, indipendente da qualsiasi applicazione pratica, oltre che un regalo a quella parte di imprenditoria che non intende minimamente investire nella formazione autonoma dei propri impiegati. Purtroppo sappiamo bene che l'attuale governo ha ben poco del socialismo che ci si aspetta da una direzione democratica di sinistra e serve, invece, gli interessi delle cricche di potere, senza esimersi da un vergognoso servilismo e dal fare proclami-sponsor. Del resto, dalla pochezza culturale di un popolo le élite culturali hanno sempre avuto solo benefici, poiché l'eccessiva consapevolezza di sé e dei propri diritti da parte dei cittadini causa instabilità in chi li vuole governare.
Il peggio è che, in molti casi, questo sfrondamento della cultura, colpo dopo colpo, viene presentato come un'operazione di snellimento o come una scelta in favore della democratizzazione della cultura stessa, presupponendo l'idea che una cultura solida, vasta e che affondi le radici in una lunga tradizione sia sinonimo di un sapere elitario. Si abbatte la scuola dei saperi tradizionali inneggiando alla lotta al mostro della segregazione sociale e alla riduzione della scuola ad un parco accessibile a tutti. Ma questa concezione della scuola, forse, valeva nella seconda metà del secolo scorso, prima che licei e formazione universitaria diventassero accessibili anche alla classe media e, pur con molti sacrifici, anche a parte dei ceti meno abbienti (del resto, frequentare qualsiasi istituto scolastico, sia esso liceo, scuola tecnica o sitituto professionale, comporta enormi costi). Ma oggi che nemmeno il diploma è garanzia di occupazione, conta relativamente la tipologia di studi compiuti: l'inglese scolastico non è, dal punto di vista occupazionale, requisito più appetibile del latino per concludere un'assunzione. Picconare il sapere e ridurre all'osso le conoscenze e il livello della preparazione (anche nelle operazioni fondamentali come la letto-scrittura, in cui ormai si ravvisano lacune terrificanti, che non di rado coincidono con l'analfabetismo), con il proclama della maggior utilità di forme più attuali di conoscenze è ormai una pratica che si fonda su un'enorme bugia: in Italia non è sbagliata la scuola tradizionale (che ancora molti Paesi esteri imitano), ma è sbagliata l'idea che essa debba essere schiava del mondo del lavoro.
La scuola non è al servizio delle imprese ma dei cittadini.
Per questo non sono ammissibili i tagli spacciati per scelte di competitività e ammodernamento. Se qualcosa deve cambiare nelle modalità di insegnamento e di trattamento del sapere, tuttavia non può passare l'idea che la scuola debba essere soltanto utile a produrre un lavoratore e con il minimo sforzo possibile. Nell'ottica della semplificazione, infatti, è stata corroso anche il principio di sacrificio: si sbandierano le tecnologie solo come mezzi per rendere più accattivante il sapere e si condannano pratiche tradizionali di successo (e che ne sono), si afferma che gli studenti debbano essere motivati perché tendono a preferire i videogiochi e i social-network allo studio e alla lettura, ma non si dice mai quanto sia importante che gli studenti, dalla scuola primaria fino all'università, siano responsabilizzati ad assumersi un impegno tale da ottenere risultati validi e durevoli. Tutto deve essere bello, stimolante, facile, e questa immediatezza dovrebbe essere garanzia di una formazione egualitaria e spendibile nel mondo contemporaneo. Ma negare l'importanza del duro lavoro e del sacrificio connaturati allo studio (termine che, etimologicamente, significa proprio impegno) comporta un tradimento delle potenzialità individuali e una degradazione del cittadino ad un esecutore.
Un paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi, perché le risorse mancano o i costi sono eccessivi. Un paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere. (Italo Calvino)C.M.Articolo originale di Athenae Noctua. Non è consentito ripubblicare, anche solo in parte, questo articolo senza il consenso del suo autore e senza citare la fonte.