La faccenda dell’estradizione negata di Cesare Battisti riscalda il clima gelido di questo inizio d’anno. E pone alcuni interrogativi — perlomeno a me, che sono o troppo curiosa o un po’ dura di comprendonio.
Tanto per cominciare, ragioniamo un po’ sui termini. Sui media il nome “Cesare Battisti” risulta sempre accompagnato dall’apposizione “terrorista”, in relazione all’operato del Nostro nei cosiddetti anni di piombo.
Ora, siccome io sono la romanticona che sapete e poiché il terrorismo spesso è l’arma di chi non ha eserciti, certi — e sottolineo certi — fatti di sangue che punteggiarono la mia adolescenza e la mia giovinezza restano avvolti da un’aura formidabilmente dignitosa. Ma nelle imprese di Battisti non riesco a scorgere alcuna grandiosità tragica, bensì soltanto una brutalità odiosamente vigliacca che nessun velame ideologico può in qualche modo abbellire. Le ricordo brevemente.
A Udine, il 6 giugno 1978, il capo degli agenti di custodia del locale carcere, maresciallo Antonio Santoro, viene colpito alle spalle mentre esce di casa: l’omicidio viene rivendicato dai PAC, Proletari Armati per il Comunismo, secondo i quali Santoro si sarebbe reso responsabile di violenze e soprusi ai danni di alcuni detenuti.
L’anno seguente, il 16 febbraio 1979, nel mirino dei PAC ci sono altri obiettivi — ma “civili”, stavolta: il gioielliere Pierluigi Torregiani, a Milano, e il macellaio Lino Sabbadin, a Mestre. I due, che non si conoscono e ignorano la reciproca esistenza, sono accomunati da un precedente che per i PAC costituisce un motivo sufficiente per morire: entrambi vittime di una rapina, hanno osato reagire; ed entrambi cadono sotto il fuoco del commando “terrorista”. L’azione viene rivendicata come gesto di solidarietà alla piccola malavita che «con le rapine porta avanti il bisogno di giusta riappropriazione del reddito e di rifiuto del lavoro». Come in un libro scritto male, direbbe Guccini, nel conflitto a fuoco col gioielliere Torregiani quest’ultimo, colpito a morte, lascia partire un ultimo proiettile che centra in pieno il figlio Alberto, riducendolo su di una sedia a rotelle. Come in un libro scritto ancora peggio, dico io, affiora il particolare che parecchi anni prima Torregiani, scopertosi malato di tumore, in ospedale aveva conosciuto una donna colpita dallo stesso male: il marito era morto, e quando morì anche lei il gioielliere ne aveva adottato i tre figli — Alberto, appunto, Marisa e Anna. Era questo l’uomo del quale i PAC scrissero, nel volantino di rivendicazione fatto ritrovare il 3 marzo: «Abbiamo finito Torregiani con un colpo alla testa e uno al cuore. Non abbiamo nessun rimorso per lui, perché ci riteniamo esseri umani e per noi il comunismo è il più alto livello di umanità». Sospetto fortemente che costoro il comunismo non sapessero neppure dove sta di casa.
L’ultima vittima dei Pac cade due mesi dopo, a Milano: il 19 aprile 1979, mentre lascia l’abitazione della sua ragazza, l’autista della Digos Andrea Campagna viene crivellato al volto — «Lo hanno notato in tv, mentre fa entrare in macchina una delle persone catturate. Muore solo per questo».
Cesare Battisti, dunque, non è un terrorista. È un volgare assassino. E poiché l’assassinio è una pratica universalmente esecrata e passibile di sanzioni, non si capisce in base a quale deroga il Brasile possa permettersi il lusso di sottrarre un omicida alla giustizia.
In secondo luogo, il 17 ottobre 1989 l’Italia e il Brasile hanno sottoscritto un trattato bilaterale di estradizione (ricordo che l’estradizione costituisce uno strumento di collaborazione giudiziale fra gli Stati), entrato in vigore nel 1991 e regolato sia dalle norme di diritto internazionale generale sia, particolarmente, da quelle contenute nella Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati (23 maggio 1969). Ancora più in dettaglio, l’art. 26 di questa Convenzione riguarda l’obbligatorietà del rispetto dei patti, e recita testualmente: «Art. 6 – Pacta sunt servanda. Ogni trattato in vigore vincola le parti e deve essere da esse eseguito in buona fede». (Che volete, a me quel “pacta sunt servanda” che fu di Ulpiano fa venire i brividi — sono una sentimentale).
Quindi in virtù di cosa il Brasile ritiene di poter infrangere un patto sancito secondo le norme del diritto internazionale? E, soprattutto, in virtù di cosa ritiene di poterlo fare impunemente?
Da quest’ultimo interrogativo procede il terzo: il Brasile si sarebbe condotto allo stesso modo se, invece dell’Italia, a chiedergli l’estradizione fosse stata la Germania, per esempio? O gli Stati Uniti? O magari Israele?
A questo punto, se vi siete dati la stessa risposta che mi sono data io, non potrete fare a meno di porvi l’ultima domanda: perché? Perché l’Italia è — è diventata — una nazione nei confronti della quale appare lecito mancare di parola? E, ancora, come si è arrivati a questo?
Non invocherò, retoricamente, i fasti passati di una nazione che, nata ufficialmente nel 1861, divenne di fatto tale soltanto a partire dal 1922 e lo fu — tra alterne vicende — per poco più di vent’anni. Mi chiedo soltanto com’è che l’Italia, da quando è una repubblica democratica, sembra aver perso ogni parvenza di sovranità. E forse, purtroppo, stavolta la risposta la so già.