Magazine Opinioni
Il cinema russo ha una poetica inconfondibile e che non tutti sanno cogliere. Spesso si viene spaventati dalla sua lentezza o addirittura dalla semplicità quotidiana di quello che racconta, tanto che i più scettici tendono a confondere questo aspetto con la banalità. Spesso chi ama questi film viene anche giudicato male, pensando davvero che chi si addentra a queste visioni lo fa solo per una maniacale ricercatezza di singolarità eruditiva. Il problema è che chi pensa ciò dovrebbe cominciare a smettere di guardare film, perchè è proprio alla base di quelli che possono essere difetti che il cinema russo attraverso i silenzi, la dilatazione e la ripetizione riesce a cogliere le sfumature più profonde che ci avvicinano alla più intima e originaria essenza dell'umano. Il miglior cinema russo è metafisica, ed è un'esperienza che la gran parte dei registi (mettiamo al primo posto gli americani) che ci propinano le loro opere nelle sale non hanno minimamente idea di cosa significhi. Non è con i sentimentalismi delle performance teatrali, dei dialoghi continui ed esasperanti o con il frenetico e sempre più abusato montaggio alternato che lo spettatore può acquisire in maniera profonda qualcosa di importante per la sua esperienza interiore. Basta, basta, veramente basta credere che il cinema si debba appoggiare al teatro o ai best-seller per esistere. Non so perchè sono finito a parlare di questo, ma ne sentivo il bisogno visto che ogni volta che vado al cinema mi sento insoddisfatto e preso in giro. Qualcuno dirà che il mondo è bello perchè è vario, però cominciamo a chiederci quanto di vario e visibile c'è in questo mondo.
Andrey Kravchuk al suo secondo lungometraggio, si dimostra perfettamente consapevole della tradizione del cinema di Tarkovsky ma anche di quello francese (Malle per dirne uno a caso) attraverso suggestioni prettamente visive, ci trasporta nelle mura gelide e degradate di un orfanotrofio dove i volti opachi e malinconici dei bambini attraverso le finestre sono in attesa della speranza e dell'amore di una famiglia, momenti di solitudine che mi hanno ricordato molto per l'appunto l'opera di Malle Arrivederci Ragazzi anche se lì per un contesto diverso. La fotografia cupa e nebbiosa sembra evidenziare l'incertezza del futuro di questi bambini, ma anche l'impossibilità di guardare oltre la propria realtà quotidiana privata da qualsiasi evasione a causa della direttrice dell'orfanotrofio piuttosto gretta e avara. La vicenda del piccolo Vanya è il filo teso della sceneggiatura, filo che è teso anche più del dovuto, perchè ho avuto l'impressione che l'unica pecca del film fosse proprio la mancanza di una coralità tra alcuni personaggi secondari che avrebbero meritato più attenzione e che avrebbero reso più compatta la prima parte del film. La seconda parte è incentrata sulla fuga del piccolo Vanya in cerca della madre, ed è il momento migliore dove tra incontri gentili e inseguimenti violenti nella città tanto luminosa quanto tanto caotica si arriva con stupore a un finale assolutamente indimeticabile e potente, che fa passare via l'occhio esecutore dalle imperfezioni del film. Kravchuk nell'incontro finale ci dona un momento di altissima poesia che non può che commuovere con la sua meravigliosa naturalezza ancestrale. Interessante in questo scenario il ruolo significante che ha la pioggia: come in un film di Tarkovsky estrinseca l'accoglienza e il riempimento materno.Superba, tanto che non ha nulla da invidiare a molti attori adulti, l'interpretazione del piccolo Kolya Spiridonov al suo esordio. Il film ovviamente non è uscito in italia, ma qui fortunatamente potete trovare i sottotitoli.
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