Durante gli ultimi decenni la cucina italiana si è affermata come una delle più amate dagli americani e dai vicini del nord, i canadesi, non solo perché in entrambi i paesi la presenza italiana sia significativa, ma perché l’italianità va di moda. Ricordate Eat, Pray, Love? L’americana frustrata che va in giro per il mondo alla ricerca della sua identità e fa tappa a Roma, non per scoprirne le bellezze culturali o la spiritualità, ma solo per rifarsi la bocca? Ebbene non è l’unica per cui l’Italia è sinonimo di buona tavola, di prodotti di qualità, di cibi deliziosi e di glamour.
I ristoranti e i supermercati riflettono questa tendenza, capitalizzando sul sex appeal della nostra cucina. Di conseguenza gli scaffali si riempiono di prodotti di vario tipo che ricordano il nostro paese. Per evitare confusione nei potenziali clienti, meglio scegliere l’iperbole, ed ecco che nasce il marchio Italissima: dal sale al riso, alla salsa di pomodoro, alle marmellate, ai legumi in scatola e persino alla simil Nutella, questa marca di Vancouver punta sul richiamo del Made in Italy per i suoi prodotti. Ovviamente per accontentare i consumatori d’oltreoceano non gli fanno mancare il famosissimo sugo Alfredo, per gli intenditori Alfredo Sauce, altresì nota come “heart attack in a plate”. Un sugo destinato a chi non bada al colesterolo, alle calorie e alle tradizioni locali. O forse mi sbaglio, perché per l’americano e il canadese medio l’Alfredo è sinonimo di italianità. On-line ci sono numerosissime ricette per le cosiddette “Fetuccini Alfredo”, ma il denominatore commune sono la panna da cucina, o meglio la heavy cream, il burro, il formaggio, tutto in abbondanza. In un caso si parla addirittura di 12 cucchiai di burro, mezzo litro di panna e 200 grammi di parmigiano per condire mezzo chilo di fettuccine. Povere coronarie!
Ci sono poi i prodotti italiani che non hanno mai lasciato il suolo canadese o americano, come la marca Prego, Progresso o Ragu. Ci sono inoltre i formaggi Saputo, dalla ricotta alla mozzarella plastificata, ossia la “pizza mozzarella”, mozzarella della consistenza della gruviera, senza i buchi, ovviamente, da grattare e spargere sulla pizza. La compro anch’io perché “paese che vai, usanze che trovi”. Basta non pensare che sia mozzarella, ci si può accontentare. Quando andiamo al supermercato e mio marito mi chiede spesso: “Che formaggio prendiamo?” rispondo: “Fai tu, tanto per me sono tutti uguali” e sia ben chiaro che per ora non porto la dentiera e le mie papille gustative sono in ottima forma.
La parola mozzarella per estensione comprende un tipo di formaggio sconosciuto in Italia, più simile forse al Galbanino che al tipico formaggio campano. D’altra parte nella tradizione americana i formaggi freschi sono praticamente sconosciuti, forse per una questione di grande distribuzione o per ragioni storiche, fatto sta che a meno che non si vada in un negozio italiano, la mozzarella è di due tipi, o solida, o gommosa e insipida. Visto che il secondo tipo costa il doppio del primo, è facile decidere cosa mettere nel carrello.
Per un italiano destreggiarsi nella giungla dei cibi presuntamente italiani all’inizio può essere complicato. Bisogna tenere in conto che l’ambito gastronomico ha molti aspetti in comune con quello linguistico: in entrambi i casi si tratta di sistemi nei quali gli elementi stranieri, ossia importati, cibi o sostantivi, vengono assimilati seguendo le regole del sistema che li assimila per cui le parole verranno pronunciate seguendo la fonetica della lingua che li prende in prestito ed i cibi seguiranno le regole, per lo più inconsce, della cultura che li adotta. Non deve sorprenderci quindi se il cappuccino viene abbinato alla pasta al pomodoro, perché in realtà quella bevanda sostituisce il bicchiere di latte con cui tradizionalmente molti americani si dissetavano all’ora del pranzo.
A livello linguistico alcuni cibi italiani hanno subito interessanti mutazioni: la rucola, per esempio, è stata ribattezzata “arugula” perché i fruttivendoli siciliani la chiamavano appunto “a rugola”, ma i colleghi americani, non rendendosi conto che la a iniziale in realtà fosse un articolo, presero tutto, all’ingrosso, e le foglioline di rucola sono ormai passate all’inglese con il nome di arugula. Nelle zone ad elevata densità italiana, la ricotta viene chiamata “rigott” e il prosciutto “prosutt”, ma solo il crudo. Se l’immigrazione italiana non ha influenzato il lessico locale, il prosciutto di Parma è conosciuto come “prosiuto” o giù di lì. Non manca poi la “mortadel”, la “mozzarell”, i “biscotti”, pronunciati “biscadi”, ossia dei cantucci giganti, di una lunghezza di una quindicina di centimetri arricchiti di gocce di cioccolato, nocciole, uvetta, etc.
Ce ne sono di tutti i tipi, come per esempio quelli con la zucca, i Pumpkin Biscotti, da fare in autunno, soprattutto per Halloween.
Una volta, al termine di una lunga lezione di italiano avevo avuto la malaugurata idea di ordinare “A cappuccino and a cookie” riferendomi ai “biscotti” e la barista mi aveva ripreso spiegandomi: “Those are not cookies, those are biscoddi”. Devo aver strabuzzato gli occhi con un certo tono di fastidio. Il “biscotti” in questione era piuttosto stopposo, comunque da quel momento in poi li ho evitati, non solo per l’imbarazzo di dover chiedere “One biscotti” e non riuscire a decidere se pronunciare biscotti all’italiana o all’americana, ma perché devo ammettere che i cookies sono molto più appetitosi dei “biscotti”.