Il fosforo bianco è utilizzato per le bombe incendiarie. Questa sostanza a contatto con l’ossigeno produce anidride fosforosa. Tale reazione chimica provaca due effetti.
Effetto numero uno: sottrazione di ossigeno = asfissia.
Effetto numero due: generazione di calore = ustione.
Le granate al fosforo bianco necessitano di un minimo innesco esplosivo in grado di rompere l’involucro in cui è contenuta la materia assassina. Al momento della detonazione, l’agente chimico si disperde incendiandosi nell’ambiente circostante. Pare che esso bruci ad una temperatura di 2.800 gradi, la temperatura media estiva dell’inferno.
Se liberato il fosforo impazzisce, il metallo della bomba è la gabbia di un demonio artificiale che in un attimo incendia tutto quello che trova nei paraggi. Tutto.
Le conseguenze sulla carne umana possono essere immaginate; dall’invenzione della clava la sadica arte militare sa produrre invenzioni perfide, via via più raffinate e truci, sempre più micidiali.
I soldati americani le chiamano Willy Pete. White Phosphorus. W(hite)illy P(hosphourus)ete.
Alcune Willy Pete sono custodite in una borsa da viaggio insieme a pistole e mitra la mattina di lunedì 17 dicembre 1973, all’areoporto Leonardo da Vinci di Roma-Fiumicino. La maniglia dell’arsenale a mano è stretta da un palestinese appena sbarcato dal volo Iberia 352 da Madrid delle 9.40.
Non è solo, fa parte di un gruppo di cinque elementi; cinque fedayyin in missione europea. Hanno la carnagione olivastra, da arabi, si mescolano a pellegrini maomettiani diretti alla Mecca, la santissima.
Non danno nell’occhio, quello è un moderno areoporto intercontinentale, molto trafficato nei giorni precedenti le feste di Natale, è il crocevia di razze, popoli, lingue, culture.
I controlli non sono come quelli odierni, meticolosi e organizzati, e non deve essere un problema per il commando cercarsi un angolo tranquillo nelle toilette delle partenze per aprire la pesante valigia.
Mitra e caricatori finiscono infilati sotto i cappotti, bombe a mano e pistole nelle cinte.
È il momento dell’azione di Settembre Nero. Allah Akbar.
I guerriglieri si mettono in fila con altri passeggeri verso il controllo bagagli, dove dietro lunghi tavoli ci sono agenti della polizia di stato e della guarda di finanza che sbarrano il passo verso i gate.
L’orologio sul tabellone dei voli segna le 12 e 50. Spunta il ferro nero delle armi.
Da una scena affollata di viaggiatori, di chiacchericcio babelico, ma serena e tranquilla, si passa ad un caos violentissimo nell’arco temporale di un battito di ciglia o di un grilletto premuto. Uno schiocco di dita e il terminal trema sotto colpi d’arma da fuoco, le corse nel panico incotrollato della gente che scappa, le grida folli.
Non agiscono da improvvisati kamikaze del Vicino Oriente, hanno un piano e lo mettono in atto sicuri e determinati. Si separano in due gruppi di terrore, ognuno con un obiettivo da raggiungere a qualunque costo.
Il primo gruppo di fuoco sequestra sei giovani poliziotti, li spinge rapidi verso il Gate 14 con le canne delle automatiche premute sulle schiene; è un ordine a cui non si può dir di no.
Il secondo gruppo di fuoco spara sulle vetrate del terminal che cadono giù in una cascata di cristallo; vogliono uscire direttamente sulla pista. Sanno bene cosa colpire.
Sulla pista è fermo il Boeing 707 della Pan Am. I passeggeri sono a bordo, tutto è quasi pronto per il decollo. Ma il volo 110 con rotta Beirut –Teheran sarebbe dovuto partire 25 minuti prima, il suo ritardo è la sua fine.
Dai finestrini passeggerei ed equipaggio vedono gente che spara, vedono gente che scappa a testa china mentre fischiano i proiettili. La voce del capitano Andrew Erbeck si diffonde dagli altoparlanti:
“Everybody down! Tutti giù!”
I 59 passeggeri e i 9 membri dell’equipaggio si gettano tra i sedili, ma la minaccia è sempre più vicina; i fedayyin di Settembre Nero avanzano usando il piombo delle loro armi per aprirsi la strada. Sul fianco dell’aereo è ancora appoggiata la scaletta che viene usata per compiere la strage.
Un terrorista ci sale su e getta nel portello aperto tre bombe a mano al fosforo, le infami Willy Pete, una dietro l’altra.
Canestro.
Prima l’onda d’urto che dilania, stordice, rompe i timpani. Seguono le fiamme che si diffondono tra sedili e corpi. Fumo, nero, tossico, è tanto, bollente.
La carlinga è squarciata, le persone muoiono soffocate o bruciate vive dal fosforo. Un assistente di volo riesce a spalancare il portello d’emergenza per cercare una via di fuga da quella che è un’atroce trappola per topi.
Aria, aria fresca. Alcuni troveranno la salvezza, altri no.
I morti del Pan Am saranno trenta, tra loro anche due ministri del Regno di Marocco, i messieurs Doukkali e Limani. Gli italiani uccisi sono invece quattro, tra cui anche la vittima più piccina, Monica De Angelis, nove anni.
Ma non è di certo finita all’areoporto di Fiumicino. Sono le 13.10 e sulla pista la sparatoria pare essere furibonda, in realtà il gran baccano da guerra è da attribuire ai palestinesi e non alle forze dell’ordine italiane che di proiettili ne sparano ben pochi, una dozzina appena, sembrano troppo spiazzati dall’audacia di quella minaccia venuta dall’altra sponda del Mediterraneo, sono sulla difensiva.
Corrono in soccorso gli uomini della VAM – Vigilanza Areonautica Militare, in assetto da battaglia - purtroppo tardivo perché il primo gruppo di fuoco sta prendendo possesso di un altro veivolo.
Il Boeing 737 della compagnia tedesca Lufthansa, che sarebbe dovuto partire per Monaco di Baviera, è in mano ai guerriglieri. Nella rete dei sequestratori finiscono pescati equipaggio, tecnici della manutenzione di terra, agenti della polizia e della finanza. Quindici prigionieri.
Con le mani in alto c’è pure il giovane finanziere Antonio Zara, 20 anni, disarmato dal commando sotto l’aereo arrembato. Con un cenno un fedayyin gli dice di allontanarsi, e Antonio non lo se lo fa ripetere due volte, forse è salvo.
No, invece.
Il finanziere fa pochi passi e lo freddano alla schiena, Antonio s’accascia sulle ginocchia stecchito. Quattordici prigionieri.
Il secondo gruppo di fuoco si ricongiunge con il primo; entrambi sono a bordo del 737. Alle 13.30, il Boeing catturato si alza da Fiumicino, si lascia dietro fumo, militari, cadaveri; inizia la seconda fase, quella in aria, dell’attacco di Settembre Nero.
I pirati sono in cielo. Il loro bottino sono gli ostaggi.
È un’odissea del terrore, su, tra le nuvole. La rotta appare improvvisata e schizofrenica: Roma – Atene – Beirut – Cipro - Damasco – Bagdad – Kuwait City in un arco di tempo di 28 ore di pura angoscia.
Prima tappa: Atene. Alle 16.50, il carburante è agli sgoccioli, tra poco si cade. La torre di controllo dice no! Non potete atterrare, andate via! Il comandante Lufthansa, l’olandese Joe Kroese invoca pietà:
“Non possiamo rimanere in volo un minuto di più”.
Si atterra, grazie al cielo.
Passano lunghe ore di suspance. L’ingombrante ospite è circondato dai parà ellenici della 1ª Brigata assaltatori, ma qualsiasi tentativo di blitz finirebbe nel peggiori dei modi, la giunta militare dei colonnelli che regge il Paese lo sa bene. Il generale Gizikis cerca la trattativa, nella torre di controllo si affollano le personalità in doppiopetto e in divisa. Il ministro greco degli interni Tsoumbas, gli ambasciatori di Libano, Siria, Giordania, Iraq, Egitto, i funzionari diplomatici di Italia, Germania, Francia, Austria, gli interpreti e uno stuolo di ufficiali e poliziotti stanno tutti accalacati tra i tecnici della torre, a sudare.
Dall’aereo giungono comunicazioni isteriche, richieste urlate, proclami di sterminio, messaggi per la liberazione della Palestina, condanne a morte. I terroristi chiedono l’immediata liberazione dei due compagni detenuti in Grecia in seguito all’assalto dell’agosto precedente, quando una cellula colpì all’aereoporto di Atene un aereo TWA uccidendo cinque persone.
Le autorità tergiversano, promettono clemenza in sede processuale, non possono però rilasciare chi ha fatto strage. I pirati si agitano sempre più, improvvisano messinscene di fucilazioni a sangue freddo facendo sentire via radio le implorazioni del bravo comandate Kroese, le grida terrorizzate delle hostess e la minaccia di far schiantare l’aereo in centro città.
L’Acropoli brucerà!
All’alba, i bluff finiscono. L’addetto alla manutenzione di terra, Domenico Ippoliti, viene trascinato nei metri quadri che ci sono tra la cabina di pilotaggio e la toilette.
I terroristi tirano le tendine. Rimbombano due colpi di pistola. Si apre il portello, un cadavere viene gettato sulla pista come un sacco dell’immondizia.
Il serbatoio viene rifornito e un agente di polizia ferito a Roma è liberato. Sono le 9.20 del mattino e il 737 si rialza per destinazione ignota. Prima di staccarsi da terra, il corpo di Ippoliti è calpestato dal mezzo in manovra.
Seconda tappa: Beirut. Il Libano non li vuole. La patata è troppo bollente. Mezzi militari e dei pompieri invadono la pista dell’areoporto, nessuno può atterrare. Retromarsh.
Terza tappa: Nicosia. Cipro non li vuole. Il vascello dei pirati dell’aria porta solo brutti guai. Blindati e autopompe ostruiscono l’approdo. Kroese vira a sud.
Quarta tappa: Damasco. La Siria accetta la sosta di quell’ingombrante bomba itinerante, anche perchè il 737 è di nuovo a secco e rischia di finire la sua carambola celeste in una nuovola di fuoco.
Sono le 13.20 di martedì 18 dicembre 1978. Dai finestrini ora si vede l’infinito giallo ocra, volano sopra il deserto della Penisola Arabica.
Quinta tappa: Baghdad. Il 737 le ronza attorno in alta quota, anche l’Iraq non sarà la destinazione finale.
Sesta ed ultima tappa: Kuwait City. L’Emirato del Kuwait dice che assolutamente non desidera avere una tal responsabiltà; i senzapatria coi loro prigionieri se ne vadano in un’altro paese!
Anche qua le autorità usano la tattica di ingombrare la pista d’atterraggio con mezzi militari. Ma il capitano Joe Kroese è in gamba ed è stanco, sa che la tragedia potrebbe consumarsi ad ogni minuto che passa. Trova una pista secondaria e la usa. Stop, motori spenti.
L’orologio dice che sono le 15. Il ministro della difesa Saad Al Abdullah tratta. Quel problema è da risolvere alla svelta.
Dopo un’ora tutti gli ostaggi escono dalla loro prigione con le ali, è finita. I cinque fedayyin palestinesi hanno vinto, abbandonano le armi e scendono la scaletta sorridenti e fanno le V di vittoria con le dita.
Vengono trattenuti per poco in Kuwait, l’Egitto di Sadat si offre di prenderli in consegna e poi li affida all’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat.
I cinque della prima battaglia di Fiumicino spariranno. Nessuno ne saprà più nulla.
D’accordo, qua i fatti veloci, da cardiopalma: un film d’azione e tragico. Ma che diavolo è successo? La spremuta di meningi ci fa ragionare con punti storici che se uniti ci danno un quadro quasi completo:
1) Settembre Nero è l’organizzazione che ha compiuto la strage. Il gruppo è laico e socialista, il suo nome si riferisce al settembre del 1970 quando Re Husayn di Giordania attuò un radicale e deciso repulisti di palestinesi dal suo territorio.
Formalmente è nata come costola scissa da Al-Fatah, l’ala paramilitare dell’ OLP, la guida ufficiale della lotta per la liberazione della Palestina.
Suo obiettivo è la vendetta contro la Giordania, contro i paesi occidentali filo-israeliani, contro il nemico supremo di Tel Aviv. Hanno compiuto attacchi clamorosi, audaci e sanguinosi. La firma della strage all’Olimpiade di Monaco del 1972, episodio che innescò una spirale di violenza, è loro.
Settembre Nero, sigla ambigua. È davvero indipendente? È indubbio che rappresenti l’ala più oltranzista della galassia che popola il movimento nazionalista, i suoi attentati sono lo sforzo per portare la lotta su posizioni dure ed intransigenti. Non è però completamente slegata dall’OLP e Fatah. Anzi.
In un discorso strategico politico e militare, Settembre Nero può essere come la longa manus armata e occulta dell’organizzazione, essa interviene manu militari apparentemente slegata dal resto dell’ufficialità internazionale delle forze senza terra palestinesi.
Il gioco qual è? Settembre Nero colpisce, il rumore delle bombe è globale, l’OLP condanna quei traditori impazziti, mantiene una certa rispettabilità, nel contempo ottiene fortissima attenzione in momenti delicati come trattative e conferenze di pace.
I fedayyin di SN sono ninja bombaroli, scendono alla guerra come milizia vendicatrice della Palestina, in segreto sono legati a doppio filo con i vertici dell’irredentismo arabo, sembrano pericolose pedine per ricatti e lavori sporchissimi. Delle specie di capri espiatori attivi, da usare per colpire nascondendo così i veri mandanti.
2) Il Lodo Moro è la medicina al mal di testa. È l’accordo segreto tra palestinesi e governo italiano incarnato nella trattativa dall’allora ministro degli esteri Aldo Moro. “Ho seguito personalmente le trattative per l'accordo. Aldo Moro era un grande uomo, un vero patriota. Voleva risparmiare all'Italia qualche mal di testa”, dice di quell’episodio Bassam Abu Sharif, durante i ’70 e ‘80 ambasciatore nel mondo del FPLP - Fronte Popolare Liberazione Palestina.
Francesco Cossiga, dichiara in un’intervista sul quotidiano israeliano Yediot Aharonot: “Lo chiamavano ‘Accordo Moro’ e la formula era semplice: l’Italia non si intromette negli affari dei palestinesi, che in cambio non toccano obiettivi italiani. In cambio di ‘mano libera’ da parte dell'Italia, i palestinesi hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e l’immunità di obiettivi italiani al di fuori del Paese da attentati terroristici, fintantoché tali obiettivi non collaboreranno con il sionismo e con lo Stato d’Israele”.
Dopo il dicembre 1973 la Repubblica scende dunque a patti con il movimento palestinese, l’Italia sarà un sicuro luogo di transito per gli uomini dell’OLP e formazioni ad esse collegate, non verranno più presi di mira obiettivi italiani dentro e fuori i confini nazionali, la Penisola sarà neutrale.
Dopo qualche anno la rottura del patto segreto, ahinoi, si farà sentire e farà male ...
3) La conferenza di Ginevra del 21 dicembre 1973 vuole essere uno degli innumerevoli tentativi delle diplomazie per trovare una soluzione al conflitto arabo-israeliano. L’attentato di Fiumicino è avvenuto in concomitanza con l’apertura dei lavori. Chi è seduto al tavolo ha così una chiara idea di cosa può succedere, sa che la voce dei falchi in kefiah non può essere ignorata, le discussioni sono più tese che mai.
I guerriglieri hanno raggiunto il loro scopo: farsi ascoltare gettando ai piedi dei diplomatici 32 cadaveri. L’Europa ha paura, è innegabile.
4) Il 17 dicembre, giorno della strage all’areoporto, in un’aula di tribunale inizia il processo ai membri di una cellula palestinese scoperta nella provincia romana. Nella vicenda i servizi segreti hanno delle responsabilità (sai che novità, un brutto vizio nella storia repubblicana), in questo caso peccano di sottovalutazione del pericolo.
Due mesi prima l’Ufficio D (controspionaggio) del SID comandato dal generale G. A. Maletti, dopo una soffiata del Mossad israeliano, cattura vicino ad Ostia cinque presunti terroristi.
C’è puzza di preparazione di attentati clamorosi. Tre li sbattono dietro le sbarre, altri due invece inspiegabilmente vengono imbarcati in gran segreto su un aereo della Gladio e accompagnati in Libia, e qua liberati.
Parallelo temporale che fa venire la pelle d’oca: al processo del 17 dicembre, un funzionario della polizia politica dichiara che è venuto a sapere dell’imminenza di un grave attentato di terroristi palestinesi a Roma.
Nome in codice: “Operazione Hilton”. L’azione avrebbe avuto come scopo la liberazione dei tre palestinesi incarcerati. È mattina al tribunale, e tra un’ora Fiumicino brucerà.
La strage di Fiumicino del 1973 è stato l’attentato più sanguinoso della storia repubblicana dopo la strage di Bologna del 1980, eppure se ne parla poco: non esistono associazioni delle vittime, non avvengono ricorrenze, non è usabile per speculazioni politiche come tante altre vicende.
Dimenticare sembrererebbe essere stato il verbo imperativo, ma la scia di sangue e le trame mediorientali sul nostro suolo non finiscono di certo quella mattina del 17 dicembre 1973 e esattamente dodici anni dopo il filo verrà ripreso. Verrà combattuta, nello stesso luogo, la seconda battaglia di Fiumicino: ne riparliamo tra 15 giorni.
Federico Mosso
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Per approfondire:
Dossier 56 - La strage dimenticata. Fiumicino 17 dicembre 1973 - Documentario di Teleroma 56 (puntata 1 e puntata 2)
Annalisa Giuseppetti e Salvatore Lordi, “Fiumicino 17 dicembre 1973 – La strage di Settembre Nero”. Casa Editrice Rubbettino.
Intervista a Bassam Abu Sharif del Corriere della Sera del 14 agosto 2008 a cura di Davide Frattini.
“La strage di Fiumicino, 40 anni fa”, articolo del Il Post del 17 dicembre 2013.