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ITALICA NOIR - I 23 morti di Bargagli, provincia di Genova

Creato il 16 agosto 2015 da Redatagli
ITALICA NOIR - I 23 morti di Bargagli, provincia di Genova

La scia di sangue è lunga. A Bargagli, Bargaggi, comune nell’entroterra genovese, le bare per morti violente sono tante, troppe per una popolazione di 2.500 abitanti, sparsi tra le frazioni e borgate nell’alta Val Bisagno dell’Appennino Ligure.
L’autunno-inverno 1944-45 è particolarmente rigido. Sono i peggiori mesi per il Nord Italia da quando è iniziata la seconda guerra mondiale, oltre quattro anni prima. 
Lo scontro, adesso, è fratricida, la lotta è civile. Non solo più stranieri contro italiani, ma italiani contro italiani; a odiarsi ed uccidersi, mentre il fascismo si avvia al suo cupo tramonto, con le ultime spoglie funeree di Salò, la Repubblica Sociale.

Sopra il fronte tracciato dalla Linea Gotica del feldmaresciallo Kesselring, il conflitto è guerriglia e controguerriglia: agguati, imboscate, brigate partigiane, GAP e SAP, bande e controbande, GNR e BN, fazzoletti rossi, camice nere, mitra Sten made in England, mitra Beretta MAB fabbricati in Italia, Giuseppe Garibaldi, Ettore Muti, montagne, boschi, CLN e CLNAI, Wehrmacht e SS, Achtung Banditen!
La Resistenza si diffonde: nelle città con piccoli nuclei, nelle campagne e sui monti con bande e formazioni che raggiungono dimensioni di divisioni combattenti.
In Toscana, Emilia-Romagna, Veneto, Friuli, Piemonte e Liguria si susseguono azioni e repressioni che causano decine di migliaia di morti.
Si muore da ambo le parti, e molto.
Il fronte è ovunque, anche nel genovese, alle spalle della città e del mare, tra le foreste di castagni e i faggi dell’Appennino.

E allora? Dobbiamo stupirci dei morti in un contesto di morte? Sì, dobbiamo. Perché l’elenco prosegue ben oltre la fine delle ostilità, e la cronologia, iniziata nel cuore di piombo della guerra civile, continua, continua, spietata e inquietante, a percorrere quarant’anni di storia misteriosa sui sentieri silenziosi e nei vicoli umidi di piccole frazioni liguri.
Anche in un contesto di ammazzati quotidiani, alcuni cadaveri sono da tenere seperati nel sinistro conto dei caduti di guerra.
Loro, i primi della nostra storia, sono caduti diversi.

Nel dicembre ’44 una squadra partigiana è in marcia nella zona di Bargagli: con loro c’è il brigadiere dei carabinieri Candido Cammereri, anch’egli partigiano. Cade il carabiniere, fulminato da una scarica di mitra.
I quattro compagni, illesi, giurano che si è trattata di un’imboscata dei nazifascisti.
È questa la verità?
Una notte dello stesso mese bussano alla porta del funzionario del comune di Genova, Lino Caini, sfollato con la famiglia a Bargagli. Lo portano via, nelle gelide tenebre.
Con la minaccia lo conducono fino al greto del torrente Bisagno e qua gli sparano.
Lo seppelliscono lì.
Sì, è accaduto, ma loro chi sono?

ITALICA NOIR - I 23 morti di Bargagli, provincia di Genova
Anno 1945, febbraio: si avvicina la fine della guerra, ma la violenza è per nulla scemata. A Bargagli si consuma un delitto atroce. Menti vendicative puniscono un uomo, occhi sadici si godono pervertiti lo spettacolo.
L’ex appuntato dei Regi Carabinieri Carmine Scotti, ora partigiano sotto le insegne della divisione Mingo operante nel genovese, cade in trappola.
Il 12 febbraio una staffetta raggiunge trafelata l’uomo, e lo informa che deve correre subito a Bargagli, perché casa sua è stata svaligiata da ignoti.
Carmine scende in paese, ignaro. Altri partigiani lo circondano, lo disarmano, lo sequestrano. Per due giorni, 48 interminabili e terribili ore di inquisizione medievale, Scotti subisce indicibili torture disumane.
Gli aguzzini paiono divertirsi a farlo camminare a piedi scalzi su ricci di castagne, a pestarlo a turno, a cavargli gli occhi con una forchetta, a legarlo nudo ad una stufa rovente ustionandolo e cuocendolo vivo per un tempo lungo e atroce.
Soddisfatti, i carnefici finiscono quanto rimane di Carmine Scotti con un proiettile alla nuca.
Lo spettacolo è finito.
Quale torto hanno subito quei banditi per vendicarsi così crudeli?

Insurrezione generale, la spallata finale degli angloamericani e dei guerriglieri italiani viene assestata a quanto rimane della RSI e dell’esercito tedesco, ormai in rotta. È l’epilogo del Terzo Reich e del fascismo italiano.
Colonne di tedeschi in ritirata fanno marcia verso Nord e le Alpi; assieme a loro le ultime formazioni fedeli a Mussolini sbandano.
Si arriva ai giorni della Liberazione e della fine della guerra.
A fine aprile 1945, un gruppo di partigiani si trova dentro un cascinale nella frazione di Sant’Alberto.
Dalle imposte chiuse provengono voci concitate, che si alzano arrabbiate, bestemmie, insulti in dialetto, c’è gente che litiga forte là dentro.
Raffiche improvvise.
Sul pavimento, i cadaveri di quattro uomini giacciono crivellati dal fuoco di mitra.
Perché partigiani hanno dovuto ammazzare altri partigiani?

Dopo la caduta del regime Bargagli è in festa, il vino scorre, la musica è nelle case e nelle vie, la gente danza. Arrivano i guastafeste, quatti, senza farsi vedere.
Dentro un’osteria diventata sala da ballo esplode un ordigno anticarro.
Quella è una mina ad alto potenziale, prodotta per scassare carri armati pesanti outdoor: se scoppia indoor gli effetti sulle persone sono di smembrarle in mille pezzi.
Quattro, i morti.
Incidente o attentato?

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Passano anni, gli eventi della guerra civile sono lontani, vivono solo nei ricordi della gente. È il 1961 e quella è un’altra Italia. Ma lassù, a Bargagli, tra i boschi di castagni e faggi, gli assassinii non sono finiti.
La vecchia scia di sangue riprende il suo orrido corso; nuovo sangue fresco torna a scorrere.

Federico Musso soprannominato “Dandanin” è da quarant’anni che fa il becchino. Tra i tanti a cui ha scavato la fossa, c’è anche il corpo martoriato del povero Carmine Scotti.
Federico sa delle cose.
Ha condotto una vita modesta piena di sacrifici e sudore, adesso finalmente si può godere la pensione e passare la vecchiaia con un poco di serenità.
Frequenta l’osteria, trinca vino rosso, un bicchiere dietro l’altro - ma si sa, la vita nei borghi isolati regala pochi svaghi ai suoi abitanti, la bottiglia è buona e fedele distrazione; però ha i suoi effetti collaterali.
Il vino toglie freni inibitori, accende lo spirito, scalda l’animo, soprattutto scioglie la lingua. Tira fuori antichi rancori, smuove ricordi che devono rimanere sepolti, fa dire cose proibite, che non devono essere ascoltate.

Il becchino cammina da solo la sera del 9 novembre, un po' barcolla. Compie gli ultimi passi della sua vita su un sentiero che costeggia un beo, un ruscello.
Oltrepassa un esile ponte di legno, sotto scorre il rio tra le rocce e sassi. Cade sul greto. Picchia la testa.
Lo ritrovano il giorno dopo a faccia in giù, vicino all’acqua gelida, con il cranio sfondato: difficile ridursi così solo per un caduta, per quanto violenta essa sia; c’è la mano di qualcun’altro, armata con una spranga o con una pietra aguzza o con un martello.
Spranga, pietra o martello: scelga il lettore l’arma che preferisce, poco cambia ai fini dell’indagine. Lo scrittore sceglie il martello. Adesso tocca al vecchio becchino, che tanta gente del luogo ha seppellito nel cimitero di paese, venir sepolto.
Quale segreto ha svelato il Dandanin?

Otto anni dopo, il dicembre del 1969, l’assassino o gli assassini tornano a colpire, spaccando la testa a Maria Assunta Balletto nell’aia di sua proprietà, un destino simile a quello riservato al becchino, quindi un omicidio con modalità arcaiche, brutali, rabbiose.
Spaccar le teste è diverso che sparare con un revolver da metri di distanza, due proiettili e via, tutto finito; lì bisogna aggredire la vittima da vicino, con le mani, con furia, e picchiare più volte, decisi ad andare fino in fondo a quello che s’è iniziato.
La Balletto durante la guerra era stata staffetta partigiana.
Il suo corpo esamine viene trovato dalla sua amica Maria Ricci, anche lei ex-partigiana della zona.
C’è un passato che ritorna per uccidere?

Il 21 aprile 1971, qualcuno entra dentro la casa del campanaro Cesare Domenico Moresco, detto “Ce”, ed è un copione che si ripete, con il terzo cranio fracassato. I carabinieri, trovano tutto a soqquadro.
Campane a morto per il campanaro.
Cosa cercavano nelle stanze di Cesare?

Qualche riga fa si è scritto il nome di Maria Ricci, amica della Balletto, l'ex staffetta massacrata due anni prima. Ora, nel settembre ’71, è il suo turno. L’uomo nero di Bargagli le presenta il conto a martellate.
L’uomo nero la segue in strada, al buio.
L’uomo nero sbuca dall’oscurità e la colpisce secco.
L’uomo nero però questa volta non riesce a finire il lavoro, fugge disturbato da altri passanti.
L’anziana donna ha la testa dura, soppravvive.
In ospedale con il capo fasciato, marescialli e brigadieri la tempestano di domande a cui lei non risponde. Dice di non ricordare, di non sapere, che la lascino in pace. Maria non ricorda o ha paura dell’uomo nero di Bargagli?

L’uomo nero fallisce anche una seconda volta, con un’altra vittima. Pochi mesi dopo l’agguato alla Ricci  prende di mira un vecchio contadino, “Draghin” ovvero Gerolamo Canobbio, settantenne che partecipò alla Resistenza in qualche modo.
Il killer, affezionato ai suoi metodi, tradizionalista e poco fantasioso, lo aggredisce con il martello.
S’intrufola nella sua camera da letto, mentre la sua preda russa, e colpisce.
Anche Gerolamo ha la testa dura come la Ricci, non ci rimane secco.
E come la Ricci, anche lui in ospedale con il capo fasciato, respinge muto le curiosità dei carabinieri. Come da copione già visto e sentito, il contadino dice di non ricordare, di non sapere, che lo lascino in pace. Va bene, le guardie lasceranno stare lui, ma non l’uomo nero.
Draghin, il vecchio partigiano che riforniva di latte le bande nei boschi, non però al sicuro. Il suo carnefice preferiva al latte il Barbera, a pintoni. La seconda volta in cui l'uomo nero e il vecchio si incontrano è quella definitiva, e la testa di Draghin non è dopotutto così dura.
L’uomo nero questa volta ci mette molta più forza, gli percuote il cranio con tutta la violenza che tiene nelle braccia e lo ammazza nel novembre 1972.
Nella tasca di Gerolamo Canobbio rimane il portafogli, ben gonfio: non si tratta di rapina.
Davvero Draghin non sapeva chi fosse ad averlo aggredito?

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La scia di morte si fa torrente rosso in piena, come se l’autore (o gli autori) degli omicidi si eccitasse(ro) e provasse(ro) gusto: sangue chiama sangue, che tutti i conti rimasti aperti siano regolati.
Giulia Viacava, vedova allegra ultra-sessantenne, è una donna di una certa età ma con ancora molta voglia di vivere. Possiede un patrimonio cospicuo e inconsueto per quei borghi di contadini e boscaioli. È benestante e si gode la vita di paese, che anche se non offre di certo una vita notturna al pari delle metropoli, qualche serata in balere con brindisi e danze la si può passare lieta.

23 marzo 1974, il primo sabato di primavera, Giulia, la “Nini”, si mette tutta in tiro per una festa. Per la Nini, vino e valzer tutta la sera, con più cavalieri. Abbiamo già scritto che è vedova allegra. Ha amanti, più d’uno. Gerolamo Draghin Canobbio ad esempio, era uno dei suoi attempati fidanzatini.
A mezzanotte, dopo aver lasciato la sala “Maxim”, tempio locale di mazurche, polke, fisarmoniche e clarinetti, la donna rientra a casa da sola.
Son vie e vicoli poco illuminati, deserti, c’è solo qualche gatto randagio e nottambulo che muove le ombre.
Il vento agita i rami di alberi ancora senza foglie; artigli al chiaro di luna.
I tacchi di Nini battono la pietra di sentieri in discesa. È l’unico rumore. C’è qualcuno, in un angolo, nascosto, immobile, che l’attende. Un balzo improvviso.
L’uomo nero sbuca dalle tenebre. È un attimo. Un grido soffocato e poi colpi alla testa, per spaccargliela.
Giulia Viacava s’accascia, morta.
In lontananza, alcuni cani latrano alla notte. Di nuovo, si scarta l’ipotesi di rapina: gioielli e contanti non vengono nemmeno toccati. Ma allora si tratta di un maniaco, di un mostro, di uno psicopatico come cominciano a scrivere nervosi i giornalisti? Belin! C’è un mostro a Bargagli, un pazzo sanguinario!

Il paese attira l’attenzione mediatica che si merita. Un sostituto procuratore, Luigi Carli, si impegna in indagini, vestendo i panni del detective. Scava nella memoria di quei luoghi, indaga in vecchie leggende, ascolta le dicerie d’osteria, i racconti di un tempo feroce che talvolta esce dalla tana buia come se fosse un lupo affamato, interroga, prova a vincere i silenzi, le reticenze, le omertà, le paure.
Gli abitanti hanno timore; se davvero un serial killer è a piede libero in quei boschi, allora ciascuno di loro è in pericolo.
Lassù, ai piedi dell’Appennino, nelle valli di faggi e castagni, tra le case sparse di campagna, ci sono segreti, incoffessabili.
Qualcuno dice, magari per depistare, che ci sia un mostro, un assassino solitario armato di follia.
Nossignori, non è l’opera di un pazzo maniaco spinto da pulsioni da psichiatria criminale: il giudice e i carabinieri intuiscono una trama ben più complessa e incredibile.
C’è un fil rouge che collega gli omicidi, un movente antico, la cui radice affonda nei decenni addietro, quando c’era la guerra...

E pure se Bargagli è osservata speciale, le morti violente non si fermano. Per due settimane viene messo sotto torchio il manovale Pietro Cevasco, di anni 54, che fu anche lui amico molto intimo della vedova Viacava, l’ultima vittima.
Gli interrogatori son serrati.
Si pensa sia l’uomo chiave; lui conosce la storia, lui può svelarci il mistero.
Pietro non regge la pressione. Fugge dal mondo. Un bel mattino le sue gambe penzolano in campagna.
Sceglie un pesco e s’impicca nel gennaio del 1975.
Già, si impicca: strano, però, che il suicida abbia il volto tumefatto, come se l’avessero pestato.
Strano anche che abbia legato la corda a quel ramo così esile, che sì lo tiene a penzoloni per il collo, ma che difficilmente non si sarebbe spezzato per lo strattone di un corpo che si lascia cadere dall’alto.
Ed è pure strano che quel pesco sia stato tagliato dopo pochi giorni, lasciando nessun elemento agli inquirenti su cui fare ulteriori indagini. Un fatto è certo: che si tratti di suicidio o di omicidio, Pietro Cevasco non potrà più confessare nulla.

A questo punto però Bargagli insorge, capeggiata dal suo sindaco Luciano Boleto: “Non ce la facciamo più. Non siamo un paese di assassini. Abbiamo diritto alla nostra quiete. L’aria di Bargagli è irrespirabile.”
Si lagna il primo cittadino, auspicando che si possa mettere una pietra sopra a tutto quel thriller enigmatico. Noi non siamo assassini. Ridateci la nostra quiete. Levatevi di torno. Fatevi i cazzi vostri.
Son lagne che hanno il loro effetto. Boleto si presenta dal procuratore capo della Repubblica, Lucio Grisolia, e protesta con forza, ottenendo addirittura che l’inchiesta venga bloccata! Un sindaco di un piccolo comune di provincia mette i bastoni tra le ruote alla macchina della giustizia e riesce a fermarla, grazie a poteri politici che lo spalleggiano: in quelle valli ci sono dei panni sporchi, evidentemente scomodissimi, che non devono essere lavati in pubblico, anzi, non devono esser proprio lavati, ma seppellitti, dimenticati.
Non è mai successo nulla, è solo un mostro, un pazzo, basta, smettetela, anzi, non capite che è Cervasco l’assassino?
Era uno squilibrato che una volta sentitosi scoperto si è impiccato per sfuggire alle manette, ai rimorsi, ai propri pensieri malati.
Più chiaro di così!
Fine della storia, tornatevene in città.
C’è del marcio, a Bargagli.

Carlo “Carlin” Spallarossa sparisce una notte del 1978. Ha 63 anni. Esce dall’osteria, procede a piedi sulla statale fradicio di vino perfido, e puf! scompare nel nulla, inghiottito dalla notte.
Carlin, ma dove sei?
Lo cercano trenta carabinieri.
Lo trovano dopo diverse settimane, giù in una forra, una gola stretta e profonda, sotto un ponte.
Il corpo imputridisce, pasto decomposto per colonie di ratti.
Ha la testa aperta e ben trecentomila lire in tasca.
Spiegazione semplice e rassicurante: Carlin passa la sera in osteria a bruciarsi fegato e mente, rincasa ubriaco marcio, cammina a zig zag con la vista non solo doppia ma quadrupla. Quel tratto di strada è particolarmente antipatico per i pedoni, c’è poco spazio e un tir ad alta velocità invade tutta la via. Fari abbaglianti accecano. L’eco di un clacson di camion rimbomba in valle. Spallarossa vede otto fari di un gigante che strilla in strada e che sta per investirlo, si schiaccia alla ringhiera, cade di sotto, si rompe la zucca.
Ma la testa Carlin se l’è fracassata da solo o ci ha pensato qualcun’altro?
È tornato l’uomo nero.

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S’interessa al caso un famoso giudice ligure, Mario Sossi. Mario Sossi... Mario Sossi... dove lo abbiamo già sentito? Nato a Imperia nel 1932... ah, ma certo! È quel Pubblico Ministero del processo del 1973 contro il Gruppo XXII Ottobre, che valse al giudice stesso la condanna dei membri della formazione terroristica. quelli del gruppo XXII Ottobre non scherzavano mica, erano un embrione genovese delle Brigate Rosse.
Le BR non scorderanno: lo rapiranno l’anno successivo, per poi rilasciarlo a Milano dopo un mese  di “prigione del popolo”. Com'è che recitava lo slogan? "Sossi, fascista, sei il primo della lista!”

Il giudice Sossi, nel 1978, è diventato procuratore capo della Repubblica a Genova: diciamo che oramai per spaventarlo bisogna mettercisi di impegno. Più impegno di quello che ci mettono i montanari: il giudice Sossi, quindi, si arrampica a Bargagli, ma ottiene pochino.
Nella piccola caserma dei carabinieri, convoca abitanti taciturni.
Non so / non ricordo / non lo conoscevo. New Corleone, provincia di Genova. Shhhhh! Non si parla, teste basse, ognuno pensi ai fatti propri, chiudete le persiane.

Mario Sossi ritorna giù in città, ad occuparsi di emergenze più gravi, come progetti eversivi, agguati brigatisti, pistolettate alle gambe, pentacoli rossi.
Intanto, nel paese tinto di giallo, l’uomo nero cambia modus operandi. Abbandona il martello per un più pratico fucile da caccia.
Chissà, magari pure lui è invecchiato, non ha più quella forza necessaria per uccidere a randellate, meglio un comodo grilletto.
Il sacrestano e contadino settantenne Francesco Fumera viene preso a fucilate una sera del 1980 e ferito al braccio.
Non ha la più pallida idea di chi possa essere stato a tendergli l’agguato.
Dopo due mesi e mezzo, il 20 dicembre, l’uomo nero spara a Carmelo Arena, disoccupato.
Arena muore il giorno di Natale del 1980. Spira senza aprire bocca.
A chi hanno pestato i piedi i due uomini?
Dopo i due strani episodi, l’uomo nero riprende le vecchie abitudini. La nuova vittima è una donna anziana, ergo, non deve essere troppo faticoso mandarla al creatore con il martello.
Di nuovo, la protezione del mantello di tenebre, la notte.

Anita De Magistris, baronessa, vedova di settantadue anni, è ritornata a Bargagli dopo tanti anni passati in Germania. Qualcuno l’ha soprannominata, con spregio, “la tedesca”.
È stata infatti sposata con un ufficiale tedesco di stanza a Genova, durante la guerra, e che ha seguito al di là delle Alpi.
Ma dopo la scomparsa del marito, la nobildonna sceglie di rientrare nella terra natia, del resto son passati tanti anni, anche le questioni più sanguinose sono acqua passata. Compra casa a ridosso del bosco della Tecosa. È una pianista, insegna musica in parrocchia, dirige il coro locale.
1983, è estate, il bosco è buio.
L’uomo nero l’aspetta sull’uscio di casa.
Anita parcheggia l’auto, sembra tutto normale e silenzioso, come mille altre sere.
Prima che la baronessa riesca ad infilare le chiavi nella toppa, cala il martello. Una-due-tre volte.
La donna anziana agonizza sullo zerbino, l’uomo nero sparisce nel bosco.

Non si può far finta di nulla, non si deve gettare la spugna. Una nuova inchiesta prende l’iniziativa. Si occupa delle difficili e intricate indagini il sostituto procuratore della Repubblica Maria Rosaria D’Angelo, aiutata dal magistrato Dino Di Mattei; adesso basta, c’è la volontà di andare fino in fondo per svelare il mistero.
Il muro di omertà e di paura comincia a creparsi, elementi importanti vengono fuori, la pista è quella giusta.
Due sono i moventi su cui concentrare l’attenzione, i motivi chiave che possono fungere da cornice al puzzle e permettere di dare senso a tutta la catena di omicidi e quindi di scoprire l’identità dell’uomo nero, sia esso un uomo solo, o (più presumibilmente) più uomini. Non v’è più dubbio: quello che è successo in quelle frazioni ha origine quarant’anni prima.

Quattordici nomi compaiono nelle lista degli indiziati per il brutale assassinio dell’appuntato Carmine Scotti nel febbraio ’45 e per gli omicidi del becchino Federico Musso “Dandanin”, di Gerolamo Canobbio “Draghin”, di Giulia Viacava “Nini”.
Sono: 

  • Silvio Ferrari “Pirri”.
  • Enrico Cevasco, conosciuto come “il comandante Merlo”.
  • Amedoro “Medoro” Cevasco, ex macellaio del paese.
  • Attilio Cevasco.
  • I fratelli Virgilio “lo zoppo” e Valerio Cevasco.
  • Pasquale Buscaglia detto “Pasqua”.
  • Ercole Nirso detto “Giancu du Sascù”.
  • Bruno Mezzadra “Nai”.
  • I fratelli Renato “Cillo” e Alfredo Olcese.
  • Dino Spallarossa “Fiero”.
  • Orfeo Calvelli “Feugu”.
  • Francesco Pistone, "il brigadiere", così chiamato perché ex carabiniere. 

Tutti loro sono ex-partigiani, o vestiti da tali negli ultimi giorni della RSI, e iscritti all’ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Nel 1984, l’anno della seconda inchiesta, quella che dovrebbe essere definitiva, son vecchi, son pensionati.
Vengono convocati e interrogati dal giudice Dino Di Mattei.
Il magistrato mette al setaccio le testimonianze e tra questi quattordici nomi, ne seleziona sei.

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All’alba di giovedì 5 luglio 1984 scatta il blitz dei carabinieri agli ordini del maggiore Antonio Reho e del maresciallo Augusto Calzetta: la brutta sveglia tocca a Pasquale Buscaglia detto “Pasqua”, Dino Spallarossa detto “Fiero”, Orfeo Calvelli detto “Feugu”, Silvio Ferrari detto "Pirri", Amedoro Cevasco detto "Medoro".
Le manette scattano anche per Attilio Cevasco, costituitosi dopo alcuni giorni di latitanza. Li conducono in gattabuia.
Nell’ordine di cattura dei sei, si parla di:

“omicidio premeditato e pluriaggravato nei confronti dell’appuntato Carmine Scotti, torturato e ucciso il 14 febbraio 1945.”

È venuto il momento di cercare di rispondere alle tante domande, riassumibili in una sola. Che diavolo è successo a Bargagli? Rewind storico. Stagioni e anni all’indietro, velocemente. 1984. 1983. 1980. 1978.
Scorrono delitti e cadaveri.
1976. 1974. 1972.
Scorrono ombre nella notte, gambe che penzolano da un esile pesco.
1971. 1969. 1961. Scorrono immagini di martelli insanguinati, di bocche che mormorano a bassa voce.
1945. 1944. 1943.
Scorre l’Italia in guerra con nemici vecchi e nuovi e con se stessa, ed è ferita e ha fame. 1942. 1941. Stop. Play.

L’Italia combatte. Prolifera il mercato nero. C’è gentaglia furbesca che si approfitta della situazione drammatica per arricchirsi. Nella provincia di Genova è attiva la “Banda dei vitelli”.
Sono specializzati nella macellazione di bovini e vendita illegale di carne. Complice un veterinario disonesto, arraffano capi che vengono dichiarati malati, non commerciabili, e giù di mannaia, in scannatoi clandestini.
I macellai pirati possono contare su una truppa di donne dalle gonne ampie e lunghe, che nascondono tagli e bistecche.
Le contrabbandiere del filetto, ben cariche, scendono giù a Genova dalla pancia vuota. Si fanno dei bei soldi, con lo spaccio abusivo di carne rossa, in quei tempi di cinghia strettissima.

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Il carabiniere Carmine Scotti indaga e scopre il giro sporco e chi ne fa parte. Il brigadiere Candido Cammereri, suo superiore, lo incoraggia.
Nel novembre del ’41, la Banda dei vitelli, la cui tana operativa è nel territorio di Bargagli, viene smantellata, processata, incarcerata. Rancore, odio, è feccia che non scorda, rimugina la sua vendetta, garantita, e che sarà di un sadismo estremo.
La guerra è una tragedia che fornisce occasioni ai delinquenti per poter delinquere impuniti. Alcuni trafficanti della gang si riciclano nell’inverno ’44-45 come partigiani di poca fede.
Allo sbirro impiccione vogliono fargliela pagare con gli interessi.
L’occasione giunge dopo che al processo d’appello del primo febbraio 1945 si sospende la pena per i contrabbandieri. Sono liberi. L’appuntato Scotti, come altri suoi colleghi, ha fatto la scelta della montagna, combatte contro i tedeschi e i fascisti, alla macchia con una formazione attiva nel savonese.
I ladroni di Bargagli lo attirano in trappola per massacrarlo di botte, con ricci di castagno, con una forchetta per cavargli gli occhi, con il supplizio di una stufa incandescente.
Due giorni dura il suo calvario, prima di quella agognata pallottola alla testa che mette fine a quelle sofferenze inferte da una banda di selvaggi.

I ladroni di Bargagli, s’inventano un pretesto, una lurida menzogna per giustificare la macellazione dell’appuntato Carmine Scotti. Quello lì è una spia dei tedeschi, un maledetto collaborazionista infiltrato tra le fila della Resistenza.
Questa falsità, l’ultima tortura, postuma e peggiore delle altre che subisce il carabiniere, è una macchia che rimane per anni sulla vicenda, prima che si faccia giusta chiarezza sull’episodio.
Quindi, nel dopoguerra, epoca di coscienze italiane ripulite candide e vere patriote all’unanimità, non c’è tanto da investigare, il carabiniere è stato picchiato, accecato e grigliato perché infame e traditore.
Dimenticatevi di lui, fidatevi degli eroi della Banda dei vitelli.

Le esecuzioni del brigadiere Candido Cammereri e Lino Caini, funzionario del comune di Genova che aiutò a combattere il fenomeno del contrabbando alimentare, sono da inserire nel medesimo progetto di vendetta. La mano assassina è la stessa.
L’uomo nero adesso non è più al riparo delle tenebre scure, è sotto il sole, di giorno, lo possiamo vedere tutti noi. Non è un killer solitario ma una gang criminale che si spaccia per liberatori.
Questa, la prima parte della ricostruzione, relativa ad un primo movente. I primi delitti, con la guerra ancora in corso, sono stati compiuti per rappresaglia con modalità mafiose.
Gli sbirri che hanno rotto le scatole alla Banda dei vitelli e rovinato il traffico della carne sono accoppati per lo sgarro.
Mafia, né più né meno.

25 aprile 1945, insurrezione generale, cade il fascismo del Nord, i tedeschi sono in rotta. E questo è l’incipit della seconda parte della storia i cui fatti sono provocati da un secondo movente, un tesoro.
Il movimento partigiano è mutato. Non è solo più quell’esercito irregolare, fortemente idealista, che negli anni ’43-’44, quando i giochi erano tutt’altro che decisi, combattè deciso l’occupazione tedesca e le forze armate di Salò, alleate di Hitler.
Nelle ultime battute, le fila si sono allargate.
L’imminente collasso del Terzo Reich e della Repubblica di Mussolini attira truppa fresca.
È il cosidetto carro dei vincitori, sempre molto affollato dalle nostre parti. A molti italiani, piace vincere facile. I guerrieri dell’ultima ora, coraggiosamente all’assalto di un cadavere.

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Spuntano come funghi nuove formazioni, più o meno riconosciute dall’autorità del CLN, spontanee, talvolta bande armate di paese, autonome e auto-elette partigiane, poco controllabili o controllate per nulla. L’etichetta di “partigiani”, presunta, viene usata in alcuni casi al pari di una maschera, come il passamontagna copre il volto e l’identità ad un bandito.
L’esser partigiani, o meglio dichiararsi tali, fornisce un alibi per nefandezze, vendette personali, ruberie.
L’odore del sangue attira gli sciacalli. La guerra è il loro habitat ideale. E certamente anche dall’altra parte della barricata non mancano episodi tristi, più collocabili in inchieste di storia criminale che in cronache belliche.
Esempio per tutti, per par condicio storica, le psicopatiche gesta cocainomani della banda Koch, sgherri nazi di una squadra della morte rapace e gangster.

Un distinguo netto si rende necessario. Separare i belligeranti, vincitori o vinti, dai banditi. Ecco, oggi noi ci occupiamo non di soldati o guerriglieri, ma di briganti.
Nell’area, molto calda, dell’Appennino ligure, c’è chi si accorge e si ribella alle infiltrazioni di personaggi ambigui e riciclati, se non proprio feccia, tra i reparti combattenti della Resistenza.
Il comandante Aldo Gastaldi, nome di battaglia Bisagno, fautore di una ferrea disciplina e rigida morale tra le proprie truppe e di una voluta condotta operativa decisamente apolitica, entra in forte contrasto con i vertici CLN, che invece politicizzati lo sono sempre di più, anche per il motivo descritto sopra, cioè di accogliere tra le fila partigiane chiunque.
Vuole denunciare opportunismi, calcoli, furfanterie.
Il comandante Bisagno, muore in uno strano incidente stradale il 21 maggio 1945, episodio su cui si sono sollevati numerosi dubbi ma poche prove.

Come in altri parti del Settentrione dunque, anche nei boschi e nelle valli che interessano a noi in questa sede, personaggi poco raccomandabili e dal passato e presente discutibile, si mettono un fazzoletto rosso al collo, si battezzano da un giorno all’altro comunisti, e si fanno partigiani.
È un destino che accomuna anche alcuni membri della rinomata Banda dei vitelli, attirati dall’impunità che la loro nuova condizione li porta.
Elvezio Massai, amico e luogotenente di Aldo Gastaldi alias comandante Bisagno, conferma: “Certo nella Val Bisagno, i combattenti della libertà si moltiplicarono”.

Esitono varie versioni e interpretazioni della ricostruzione storica, putroppo giunta a noi nebulosa e colorata di leggenda con poche prove sicure su cosa accadde effettivamente nella zona di Bargagli nei concitati e frenetici giorni della Liberazione.
Mi fido delle parole del medievista Eugenio Ghilarducci, storico della Val Bisagno e profondo conoscitore dei fatti e fattacci di quell’angolo di provincia genovese. Con il suo aiuto tento di dire la mia.

ITALICA NOIR - I 23 morti di Bargagli, provincia di Genova
Nelle ore successive al 25 aprile 1945, reparti italo-tedeschi lasciano la guarnigione di Genova e si dirigono in marcia verso l’entroterra. Sono oltre 3.000 elementi, tra alpini, fanti della Wehrmacht, e militari di altre unità, agli ordini del colonnello Pasquali della divisione Monterosa.
Hanno di fronte il nemico, e le armi non sparano più, stanche; è finita, quasi per tutti.
Si arrendono alla 92° divisione di fanteria americana, i “Buffalo Soldiers”, composta principalmente da afroamericani, neri in verde oliva.
È il 27 aprile, e nei pressi di Uscio, gli sconfitti ricevono l’onore delle armi da un reggimento particolare.
Il Present arms è dato dai nippo-americani del 442° reggimento, i Nisei, giapponesi di seconda generazione nati fuori dai confini del Sol Levante, samurai a stelle strisce, ritrovatisi dall’altra parte del fronte, con la katana e il coraggio al servizio di una patria nuova e diversa.
Che strana che è la guerra!
Sa essere surreale, assurda, allucinata.
Fascisti italiani e nazisti tedeschi a consegnare le armi a facce color ebano e a soldati statunitensi con gli occhi a mandorla.

ITALICA NOIR - I 23 morti di Bargagli, provincia di Genova
Su sei camion, il tesoro. A bordo di ciascuno mezzo, oltre alle armi da consegnare agli alleati per la resa, sono trasportate due cassette portamunizioni. Dentro ogni cassetta, non proiettili, ma lire, a milioni. Sono banconote in pezzi da 500 e 1.000 della riserva della Banca d’Italia.
In ogni cassetta 5 milioni.
Su ogni camion 10 milioni.
La colonna dei veicoli porta 60 milioni di lire.
Una cifra da capogiro per l’epoca.
Un grande, frusciante, tesoro.

Qualcuno della Banda dei Vitelli sa di quella fortuna, forse avvisato da un basista presente tra chi si è appena arreso. Gli occhi si fanno ad $, come nei fumetti, simbolo del dollaro.
Acquolina in bocca ai lupi, eccitatissimi. Basta con la trippa sottobanco, ora c’è la possibilità di diventare ricchi per davvero.
I mezzi si dirigono verso la frazione di Maxena, nel comune di Bargagli, luogo convenuto per cedere le armi ai vincitori.
Un camion smarrisce la strada sulle alture sopra Uscio, e si stacca dalla colonna: fatale per chi guida e chi scorta.

La colonna con a bordo lira e santabarbara, arranca fino al territorio di Lumarzo, poi la strada si fa troppo stretta, alt! I soldati si caricano le spalle di armi e munizioni che non useranno più, e si dirigono verso Maxena a piedi, passando per il bosco della Tecosa, sotto i rami di faggi.
Le cassette con il tesoro invece, rimangono incustodite.
Uomini armati le razziano lesti prima di altri, e le caricano a dorso di mulo. 10 milioni svaniscono.

Nel frattempo, la sesta camionetta, gira a vuoto tra strade di montagna. Nella cabina di guida, con mappa stradale aperta a lenzuolo, autista e sergente imprecano. Teufel! Ma dove diavolo si son cacciati?
Dietro una curva, la strada è sbarrata da un albero messo di traverso.
Sbucano partigiani con armi automatiche.
Due tedeschi escono dalla cabina con le mani in alto, un terzo scende dal cassone.
Non capiscono cosa vogliono da loro quei guerriglieri, loro si sono già arresi, vogliono solo tornare a casa.
Non ci torneranno.
Li spingono verso il bosco, al riparo da occhi indiscreti, e premono i grilletti.
Li falciano alla schiena.
Occultano i cadaveri.
S’impossessano di altri 10 milioni.

ITALICA NOIR - I 23 morti di Bargagli, provincia di Genova
La rapina non è ancora finita. La leggenda (o verità?) vuole che oltre ai contanti ci sia anche un altro bel gruzzolo in oro e preziosi, composto da beni sequestrati alle famiglie ebree liguri durante l’occupazione nazista, nonché uno scrigno delle Brigate Nere di Chiavari colmo di sterline d’oro usate nei mesi precedenti per prezzolare spiate e tradimenti.
Secondo queste voci, i banditi riuscirono ad arraffare anche questo secondo tesoro dalla colonna, uccidendo senza pietà chi ne faceva la guardia.
I banditi si riuniscono in un casolare della frazione di Sant’Alberto, posto convenuto per contare il malloppo e per decidere dove nasconderlo e come spartirlo.
È lo stesso sinistro luogo ai margini del bosco, teatro del sequetro con supplizi del povero Scotti di due mesi prima.
Là dentro, dinanzi a quella montagna luccicante, svanisce la calma, s’affilano i nervi, le mani toccano l’oro in carta e in moneta, i gangster non capiscono più niente.
È possibile che ricevano la visita di un’altra banda, o di partigiani veri, che gli intimano di consegnarli il denaro in nome dell’autorità del CLN.
Mai! Cani bastardi!
Raffiche di mitra, quattro morti sul pavimento. Regolamenti di conti numero uno.

Decidono che è venuto il momento di chiudere tutte le altre faccende in sospeso, ora che hanno tra le mani una tal fortuna che nessuno deve osare portar loro via. Ammazzano con un ordigno anticarro altri quattro compagni rompiscatole, a Bargagli, nell’attentato all’osteria durante i festeggiamenti per la Liberazione. Regolamenti di conti numero due.
Sembra un romanzo di pirati, ed è proprio così in effetti.
Sono pirati dell’entroterra, spietati, avidi, assassini e accecati dai soldi.
È la storia dei quaranta ladroni di Bargagli, e della loro caverna di Alì Belin Babà, che nessuno ha mai trovato, nascosta chissà dove, in quale anfratto degli Appennini, o in quale conto svizzero.

Il bottino trafugato: questo è il secondo movente, che causò la scia di sangue dal 1961 in poi. L’uomo nero usa la tecnica dei macellai. Una mazzata secca sulla fronte, come si fa con i vitelli.
Uno dopo l’altro cadono ammazzati i custodi di segreti che non devono essere svelati.
Forward storico, il nostro film thriller scorre in avanti nel tempo. 1961. 1969. 1971. L’uomo nero fa fuori il becchino Dandanin, la partigiana Maria Assunta, il campanaro Ce.
1972. 1974. 1975.
Uccidono il contadino Draghin, la vedova Nini, e “suicidano” con un corda al collo il manovale Pietro.
1978. 1980. 1983.
Se la prendono con il bevitore Carlin, il disoccupato Carmelo, con la baronessa De Magistris.
Stop. Play.

ITALICA NOIR - I 23 morti di Bargagli, provincia di Genova
L’ultimo omicidio, quello di Anita De Magistris “la tedesca”,  ha retroscena interessanti. La De Magistris, durante i mesi dell’occupazione tedesca, abbiamo visto che si innamora del capitano della Wehrmacht Paul Drews, ufficiale presso i cantieri navali di Riva Trigoso e responsabile per quell’area dell’organizzazione Todt, la mastodontica impresa di costruzione grandi opere e di lavoro in attività industriali strategiche, a controllo statale del Reich.
Un ufficiale come Drews, vista la sua particolare posizione militare e dirigenziale, un mix tra un soldato, un contabile e un ingegnere, lo si può immaginare come un burocrate con la Luger.
Lui, più di altri, avrebbe potuto disporre, visto il suo ruolo ai cantieri navali, di ingenti quantità di denaro.
Seguendo questa tesi si avalla l’ipotesi che la fidanzata e poi moglie del capitano Paul, la baronessa Anita De Magistris, finita anche lei con la testa spaccata, ne sapesse più di altri sul tesoro di Bargagli.
Altro che acqua passata: è possibile che si sia scavata la fossa quando dalla Germania decide di tornare in Liguria, cercando soluzioni a enigmi del passato.
Domande, curiosità, ricerche ... sono cose che qua a Bargagli valgono a sufficienza un movente per un omicidio.

Torniamo alle vicende giudiziarie del 1984. Ci sono sei uomini in carcere, tutti hanno la tessera dell’ANPI in qualità di ex-partigiani, anche se alcuni di loro partigiani lo son diventati solo nell’ultimo periodo del conflitto. Ad esempio ci sono nomi che facevano parte della brigata partigiana “Castelletto”, costuita il 23 aprile 1945, appena in tempo per conquistare una gloria molto comoda, senza rischi.
Ma ciò basta per provocare nuove accesse polemiche e veementi proteste; ANPI, sindaco e forze del PCI tornano sul piede di guerra per difendere l’onore della Resistenza tutta, e con il senno di poi è evidente il loro sbaglio ottuso, sono incapaci ancora dopo 40 anni dal 1945 di affrontare un discorso di verità storica separato dalla politica, e di isolare gli approfittatori, i ladri e gli assassini, di riuscire a distinguere cioè la vera Resistenza dal banditismo mascherato da patriottismo.

In gioco ci sono gli intoccabili santuari della memoria dei vincitori. La difesa senza riserve del movimento partigiano nella sua totalità, nel far quadrato senza porsi alcun dubbio, rende la vita facile ai parassiti degli ideali e al germe di una mafia locale.
Sì, mafia, non è esagerato e provocatore il termine.
Mafia è un associazione a delinquere, segreta, costituita per l’arricchimento materiale dei propri associati con modalità illecite. Un’organizzazione di ladri che usa la minaccia, la corruzione e l’omicidio per proteggere i propri interessi e salvaguardare il potere sul territorio.
È un fenomeno sopratutto del Meridione, si sa, ma l’etichetta di associazione a delinquere di stampo mafioso la si può usare bene per altre realtà, ben lontane dalle strade palermitane, dalla provincia campana, dai monti calabresi.
La Banda dei vitelli, evolutasi in altro nel dopoguerra, è una mafia piccola, circoscritta a frazioncine e vallate di castagni, ma mafia.
Una gang di contrabbandieri che hanno rapinato e hanno ammazzato per preservare il proprio anonimato e il tesoro.
Nel territorio di Bargagli un gruppo di potere occulto ha la sua tana.
Hanno il potere di vita o di morte su chi sa e su chi non tace.
Mafia.

Agiscono nell’ombra con i metodi tipici dell’intimidazione come quando viene interrogato il primo luglio 1984 Renato Olcese detto Cillo dal magistrato interessato a sapere se effetivamente l’appuntato Scotti fu tenuto prigioniero presso la sua abitazione.
Durante l’interrogatorio qualcuno appicca un incendio a casa di Olcese, quasi bruciando viva la vecchia madre.
Avvertimento mafioso.
Mafia.
E poi c’è l’omertà. Silenzi di paese. Occhi ciechi, lingue atrofizzate, orecchie sorde. In una delle tante lettere senza firma giunte al giudice istruttore Dino Di Mattei, un anonimo scrive: “In paese sono avvenute stragi perché chi avrebbe dovuto evitarle o dormiva, o non capiva, o era d’accordo”.

Gli arrestati in carcere rimangono poco. Due settimane. Gli avvocati trovano un’efficace scappatoia ai loro assistiti, sospettati sì della catena di delitti, ma incarcerati unicamente per il brutale omicidio del carabiniere Carmine Scotti.
L’articolo 2 del decreto presidenziale del 18 dicembre 1953, recita:
"È concesso indulto: 
a) per i seguenti reati commessi  dall'8 settembre 1943 al 18 giugno 1946: reati politici, ai sensi dell'art. 8 del Codice  penale, e i reati  connessi; nonché i reati inerenti a fatti bellici, commessi da coloro che abbiano appartenuto a formazioni armate:

  1. commutando la pena dell'ergastolo nella reclusione per anni dieci e, qualora l'ergastolo sia stato gia' commutato in reclusione per effetto dell'indulto, riducendo ad anni dieci la pena della reclusione sostituita a quella dell'ergastolo;
  2. riducendo ad anni due la pena della reclusione superiore ad anni venti e condonando interamente la pena non superiore ad anni venti".

ITALICA NOIR - I 23 morti di Bargagli, provincia di Genova
Il decreto è  approvato durante il governo Scelba e porta le firme eccellenti di Sandro Pertini, Aldo Moro, Giancarlo Pajetta. Questo intervento allarga di molto il campo d’azione dell’amnistia Togliatti del 1946, includendo anche le vendette personali e i regolamenti di conti fino ad un anno successivo la fine della guerra.
Allora, spieghiamo.
Nella legge italiana non è prevista la prescrizione quando un reato comporti la pena dell’ergastolo, come per i crimini di Bargagli. La commutazione portata dal decreto del 1953 fa però automaticamente scattare l’estinzione del reato, perché annullando la pena dell’ergastolo subito quei vecchi reati cadono in prescrizione, non essendo più punibili con il carcere a vita.

Insomma, i sei sono stati incarcerati con una procedura irregolare e scatta l’indulto immediato perché dichiarano di aver fatto parte di formazioni partigiane. Anche se partigiani abusivi, riescono a farla franca.  
Il giudice Dino Di Mattei, benché caduto dalle nuvole sul decreto che annulla tutti gli sforzi della magistratura per scoprire la verità, non s’arrende.
Concentra gli sforzi delle indagini su una persona.
È Francesco Pistone, ex-brigadiere dei carabinieri e per questo soprannominato “il brigadiere”, partigiano della formazione “Buranello” operante in Val Bisagno, a lungo impiegato comunale al municipio di Bargagli e definito dalla stampa dell’epoca “un uomo alto, diritto, lucidissimo nonostante l’età”.
Viene interrogato quattro volte, per ore.
Dalla porta chiusa dell’ufficio del giudice istruttore provengono voci accese, alterate.
Non è inquisito per l’omicidio Scotti del ’45, bensì per il delitto di Giulia Viacava dell’’74.
Con Nini, Francesco Pistone aveva una relazione sentimentale. C’è un testimone le cui accuse lo inchioderebbero.
Il movente, più che per ragioni sentimentali, è da ricercarsi in questioni patrimoniali, nei soldi. Per quell’assassinio, non c’è indulto che tenga.
È lui l’uomo nero di Bargagli, il mostro dalle molte teste?

Non può esserci certezza. Francesco Pistone, nel marzo del 1985, terrorizzato da un arresto imminente, s’impicca ad una trave del suo cascinale. In casa sua i carabinieri frugano.
Viene fuori un’inquietante mappa di Bargagli e territorio, con X rosse sui luoghi esatti dove sono avvenuti i delitti.
Nel quarantesimo anniversario della Liberazione, il comune di Bargagli viene decorato con la medaglia d’oro. La cerimonia è strana, molti gli abitanti assenti. L’aria è pesante.

L’ultimo atto della vicenda noir si consuma a fine degli anni ’80. La procura generale di Genova mette ordine. I colpevoli dei 23 delitti (ventitrè!) sono una decina di persone di cui si conoscono nomi e cognomi e che hanno partecipato ai crimini in maniera diversa, chi direttamente con spranghe, pietre o martelli che siano, chi indirettamente con complicità, coperture e protezioni.
Ma i responsabili devono essere prosciolti dall’accusa di omicidio premeditato e pluriaggravato in virtù dell’indulto Scelba.
Nessuno pagherà, né allora, né adesso, né mai.
Il movente o i moventi non hanno nulla a che fare con la politica, ma con il classico dei classici: il denaro, le palanche come chiamano i soldi i genovesi.
Tesori veri o presunti, invidie di paese, faide per terreni, eredità, prestiti, misteri svelati in osteria con lingue rese lunghe e coraggiose dal vino... queste le cause della lunga scia di sangue.

ITALICA NOIR - I 23 morti di Bargagli, provincia di Genova

Barzellette sull’avarizia e sull’avadità dei genovesi:

Come si fanno la doccia i genovesi?
Incendiano un bosco e aspettano che arrivi un Canader.

Partita di calcio Genoa-Sampdoria. L'arbitro lancia la monetina, duemila feriti ...

Un genovese ordina un doppio whisky. Sta per bere, quando si accorge di una mosca che nuota all'interno. Con aria furente la tira fuori dal bicchiere, l'appoggia sul tavolo e inizia a premerla tra le dita: "Sputa, maledetta, sputa!".

Tre storielle per sdrammatizzare, battute che dovrebbero far morire dal ridere.
Anzi, risparmiamo anche sulla tastiera: far morire e basta.

L’uomo nero, il mostro con tante teste, un clan di assassini, una banda di ladri feroci, un embrione di mafia, una setta di borsisti, un gruppo segreto di potere, una gang di vecchi pensionati con la passione per gli omicidi... qualunque entità criminale sia vissuta a Bargagli, essa ha vinto, compiendo i propri delitti in decenni di impunità.
Scrivere questa indagine di ITALICA NOIR non è stato facile. Si sono toccati temi ancor oggi molto delicati della nostra storia recente. C’è il rischio di speculazioni politiche, sia da sinistra che da destra.
Ma ITALICA NOIR non fa politica, ITALICA NOIR tenta di raccontare, con ambizioni letterarie ma oneste, la nostra Storia più nera.

Federico Mosso
@twitTagli 

Per approfondire:

Note musicali:


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