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ITALICA NOIR - Mattanza numero due (1978-1985)

Creato il 18 gennaio 2015 da Redatagli
ITALICA NOIR - Mattanza numero due (1978-1985)

Le Bestie vengono da Corleone per fare la guerra. Il capobranco è Luciano Leggio “Lucianeddu”. È conosciuto anche come Liggio, per via di un errore di trascrizione di un carabiniere disattento sui tasti della macchina da scrivere. Ne combina e ne ha combinate, Lucianeddu, una più del diavolo.
Come quella volta che ammazza nel ’48 il sindacalista Placido Rizzotto, alfiere della bestemmia “terra per tutti!”. Luciano e compari lo accerchiano in una strada di paese e lo portano via in auto per pestarlo a morte. Si sbarazzano del corpo incatenato ancora in vita, gettandolo sadici in un buco di Rocca Busambra, in pasto ai cani randagi e ai ratti; poi, come ultimo sfregio, il giovane mafioso seduce la fidanzata della vittima.
Lo sputo sulla lapide, la violenza delle Bestie non cessa nemmeno con la morte del nemico, cuinnutu anche al creatore.

Un pastorello di 12 anni vede il linciaggio di Rizzotto, sconvolto e agitatissimo corre dal papà a raccontare il delitto. Il genitore, meno saggio di una delle sue pecore, crede che il figlio si sia ammattito e lo porta nell’ambulatorio di paese, dal dottor Michele Navarra.
Il dottore è molto interessato al racconto del picciriddu. Gli fa un’iniezione per calmarlo; dentro la siringa, il veleno.
Il dottor Michele Navarra “U patri nostru”, non è solo il medico di Corleone, ne è anche il suo capomafia. Lui è il maestro del giovane Leggio e mandante della terribile esecuzione del sindacalista.
Ma Leggio non è discepolo come altri. La bestia è troppo feroce per essere ammaestrata, guardate come ringhia, ha la rabbia. L’animale lacera il guinzaglio, si rivolta contro il suo padrone.

L’acqua, i pozzi, la costruzione di una nuova diga, sono l’osso a causa del dissidio. Il dottore ne ordina l’eliminazione, ma i suoi bravi non riescono a sopprimerlo e sono guai. L’animale, ferito, ha la schiuma tra le fauci, salta alla gola del padrone.
Michele Navarra e un altro giovane medico a bordo di una FIAT nera vengono investiti da una tempesta di piombo, nel 1958. Leggio spara con un mitra Thompson, quel ferro tanto amato dai gangster americani degli anni ’30.
E Lucianeddu spara molto quel pomeriggio d’estate bollente; la canna del Thompson fuma incandescente. Novantaquattro proiettili sono estratti dal corpo del suo ex-padrone, finito colabrodo e incastrato tra lamiere in una scarpata polverosa sotto il sole d’agosto.
Tutti i fedelissimi di Navarra vengono giustiziati.
Adesso, il padrone è lui.
Inizia l’ascesa dei Corleonesi.

Il primo passo fuori dal feudo di Corleone che i viddani (contadini) fanno è l’acquisto di un garage-officina a Palermo, la prima testa di ponte per la futura invasione.
L’autofficina diventa una macelleria clandestina, dove capi di bestiame rubato diventano bistecche, salsiccia, trippa, budella per stigghiole, viscere per il caldume, milza e polmone di vitello per pani câ meusa.
Ci lavora anche Bernardo Provenzano “Binnu u’ tratturi”, in quella banda di ladri di vacche. Dove passa Binnu il trattore, non cresce più l’erba.
Pure Salvatore Riina “Totò u’ curtu” è nell’affare.
Lo chiameranno “La Belva”.

ITALICA NOIR - Mattanza numero due (1978-1985)

L’inizio della scalata in Cosa Nostra della banda di Leggio mostra quegli uomini per quel che sono, cioè zappaterra malavitosi, plebei cattivi. Tra attrezzi arruginiti e mannaie, pozze di sangue e d’olio di motore, maiali da sgozzare e vecchi carburatori, impiantano il primo business con  il mestiere che meglio sanno fare: i macellai.
Si arrampicano su per le gerarchie degli uomini d’onore del tempo, scalano Cosa Nostra per arrivare alla vetta.
Si fanno amici potenti come Salvatore “Chicchiteddu” Greco e i fratelli La Barbera ed escono indenni dalla prima guerra di mafia che vede scontrarsi proprio le fazioni dei Greco e dei La Barbera. Acquisiscono potere tra le nuove forze emergenti dopo i fatti narrati da ITALICA NOIR in “mattanza numero uno (1962 – 1969)” e sono loro ad avere una parte da protagonisti nella famosa “Strage di viale Lazio”, regolamento di conti con “il Cobra”, che sembra essere una scena da film d’azione.

E poi i soldi. Non sono più i due spicci dei furti di vitelli o del pizzo alle piccole aziende agricole. Nei '60 difatti si comincia a fare il bagno nei miliardi del traffico della droga.
Nelle campagne sorgono raffinerie per l’eroina, a dozzine, dove prestano la loro opera chimici di mezzo mondo, in gamba e ben pagati. In Sicilia si importa la materia prima, la si lavora, la si confezione, la si spedisce ovunque.
Il denaro è fiume in piena. Metti un milione oggi, avrai un miliardo domani, metti 100 milioni avrai 100 miliardi.

Nel 1970 al vertice di tutta l’impresa c’è un Triumvirato. Tre troni.
Su uno è seduto Gaetano “Don Tano” Badalamenti di Cinisi. A Don Tano piace la pizza. Coi Bonanno di Brooklyn gestisce una rete logistica per il narcotraffico internazionale utilizzando come basi dello smercio grossista diverse pizzerie negli Stati Uniti.
Sul secondo trono è seduto Stefano “Falco” Bontate, autoinvestito del titolo di Principe di Villargrazia. Ricco, istruito, elegante e ben introdotto nell’alta società palermitana, è maestro nel riciclare il denaro, che usa e mostra, perché è uomo di mondo e di successo che ama il lusso. Diviene amico di clan camorristici e si specializza nell’import di morfina-base dall’Asia.
Sul terzo trono è seduto il boss dei viddani di Corleone, Luciano Leggio.

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I tre sono in buoni rapporti, sembrano quasi amici, in realtà si guardano con sospetto, sopra l’Etna ci sono nubi nere, una nuova tempesta sta per arrivare.
Leggio viaggia. Presiede a summit in giro per l’Italia e in Svizzera per decidere insieme ad altri pesci grossi i nuovi assetti di tutta “l’industria” e le sue prossime strategie regionali, nazionali ed internazionali.
Lucianeddu ha sempre la valigia appresso, ci sta poco a casa, ha altri progetti che far il capo seduto su una poltrona in qualche masseria della provincia.
Leggio emigra a Milano. In rappresentanza sua, nella Cupola ricostituita, viene nominato Salvatore Riina (foto) in qualità di “senatore supplente” nel gran consiglio mafioso, ed è felice del nuovo ruolo.
Leggio, il capo, dovrebbe fare attenzione di quella sua belva feroce, così come Navarra avrebbe dovuto guardarsi dal suo sottoposto più di dieci anni prima. Son bestie a cui devi tenere la catena corta perché sono destinate a comandare, non ad essere comandate. Criminali di razza, dominatori dei propri simili per natura, lupi poco avvezzi a ricevere ordini, c’è il rischio che stacchino una mano al padrone mentre gli accarezza la testa.
E quando Luciano sale su al Nord per nuove imprese, Salvatore da braccio destro diviene sempre più capo sul territorio, è lui a prendere in mano i destini della cosca e poi di Cosa Nostra tutta.

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La banda trova un nuovo modo per raccattare denaro da reinvestire immediatamente in droga. I sequestri di persona fruttano bene. Si fanno alleanze operative con bande calabresi e coi Nuvoletta, famiglia siciliana ma operante nel napoletano, entità ibrida camorristico-mafiosa, babà & cannoli, guappi & picciotti.
Nel 1974 la Guardia di Finanza acciuffa Leggio chiamato Liggio (foto). Per lui è la gattabuia a vita e si getti pure via la chiave. Lo scettro passa di mano, lo afferra con quelle mani da zappatore il vice, Totò u’ curtu, il nuovo re di Corleone.
Totò è viddano, ma ha il cervello fino:“Sono un quinta elementare”, dirà di sè ad un processo.
Al quinta elementare non sta bene il rapporto d’inferiorità a cui i provinciali da lui capeggiati devono sottostare. Osserva quei damerini palermitani dei suoi colleghi, tutti azzimati, tronfi coi loro miliardi, si credono intoccabili, i maiali. Trattano lui e la sua gente con superiorità, come farebbe un barone con il suo mezzadro.
Loro i signori, lui il contadino. No, non ci sta Totò, le cose devono cambiare.
Medita Totò, pianifica futuri bagni di sangue, la Belva di Corleone.

Parte in svantaggio di mezzi e di conoscenze, ma recupera. Negli anni ’70 la sua gente è ancora tagliata fuori dai grossi giri del narcotraffico, vuoi per loro mancanza in fatto di relazioni internazionali, vuoi per loro ignoranza di metodi manageriali dei boss più moderni e preparati alle sfide del mercato, e vuoi per esser emarginati volutamente dalla vecchia guardia sempre più grassa e adagiata sui propri allori.
Il denaro dei rapimenti, in questa fase di preparazione alla guerra, serve per costruire un esercito mai visto prima, una macchina di morte senza eguali nel panorama della criminalità organizzata.
Totò è sottovalutato, e ciò è un’ulteriore arma nelle sue mani. Nessuno dei boss, si sarebbe mai aspettato un susseguirsi di azioni così incalzanti, audaci, determinate, efferate e diaboliche.

Stagione sicula 1977-‘78: inizia il golpe dei corleonesi per il dominio assoluto di Cosa Nostra. La nuova Commissione o Cupola, nata nel 1974 e con a capo Gaetano Badalamenti (qualcuno forse ricorderà questo nome dalle vicende di Peppino Impastato, rese celebri dal film I cento passi), ha sui seggi senatoriali i culi di Riina, Stefano Bontate, Pippo Calò, Rosario Di Maggio, Rosario Riccobono, Antonio Salamone, Salvatore Scaglione e Michele Greco di Ciaculli.
Alcuni troveranno le sbarre a vita, altri la morte violenta. Soffermiamoci sull’ultimo nome.

Michele Greco ha il soprannome di “Il Papa”.

“Le uniche cupole che conosco sono quelle delle chiese", mentirà.

Sembra un signorotto di campagna, proviene da una famiglia dell’aristocrazia criminale, cioè la vecchia guardia, che tra i suoi membri annoverano gente colta, laureata, nonché  amica di chi nobile lo è per davvero (e dunque conti e principi di casati di memoria borbonica).
Il suo cognome, Greco, è legato indissolubilmente alla storia della mafia, è un lontano parente del superboss Salvatore “Cicchiteddu” già a capo della Commissione precedente la prima guerra di mafia e di cui abbiamo già parlato.
Michele annusa l’odore delle bestie, odora e prevede la loro vittoria totale. In segreto, stringe un patto con il clan dei corleonesi.
Nel frattempo, ospita altre ed alte personalità nella sua tenuta, la Favarella, nel parco di Croceverde della Conca d’Oro, così chiamata per il colore dei frutti d’agrumeto.
Tra una battuta di caccia e un invito a colazione, si fanno riunioni e si parla. Parlano i latifondisti, i prelati, i politici DC, i funzionari, gli assessori, gli imprenditori.
Parlano anche i mafiosi, che ultimamente sono divenuti monotematici; corleonesi di qua, corleonesi di là, sempre di quei viddani stanno a parlare.
Il Papa, uomo di raffinata diplomazia bizantina, opportunista e cospirante, ascolta e riferisce. I pezzi sulla scacchiera sono schierati, scatta l’ora X del colpo di stato.

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Il percorso di presa del potere è inaugurato con l’assassinio di un carabiniere che scassa la minchia, il colonnello Giuseppe Russo, collaboratore del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che studia curioso con la lente d’ingrandimento la nuova mala del corleonese, e i suoi intrallazzi e traffici.
I culi ingrassati della Cupola fanno un balzo sui seggi. Ma come si son permessi i viddani d’ammazzare un ufficiale delle guardie senza chiedere il permesso a nessuno? Quello è un omicidio eccellente, bisogna avere l’autorizzazione per certe cose!
I dissapori sempre più accesi, mutano in odio. L’ordine di territori, cosche, gerarchie è rotto. La regola “ogni picciotto al suo posto, un posto per ogni picciotto” non vale più.
I più contrariati alla strafottenza dei viddani sono Badalamenti (foto), Bontate, Giuseppe Calderone di Catania e Giuseppe “la Tigre” Di Cristina, della provincia di Caltanissetta.
È quello lo schieramento nel mirino di Totò e compari, da estromettere in modo definitivo dal comando.

Chi più di altri protesta in Commissione per l’arroganza dei cafoni che vogliono comandare è Giuseppe Di Cristina di Riesi, e allora sarà lui a ricevere il primo morso.

"I viddani sono giunti alle porte di Palermo, lo volete capire o no?"  sbraita ai colleghi palermitani la Tigre inascolatata.

Sulla strada statale 190 delle zolfare viaggia la BMW della Tigre. Una 127 pirata la sperona, e due picciotti armati di fucili da caccia impallinano a morte due guardiaspalle del Di Cristina. Avrebbero voluto accoppare la Tigre per scuoiarne la pelle e farne un trofeo da mettere ai piedi di Totò ma quel giorno ci si accontenta di due gorilla, tanto ormai la macchina da guerra è in marcia inarrestabile.
La Tigre di Riesi sa che l’ordine dell’agguato porta la firma di Francesco Madonia, comandante di una cosca rivale di Caltanissetta, ma che ancora più dietro c’è l’aizzamento di u’curtu, a cui il Madonia è legato da un patto d’acciaio.
Il gruppo anticorleonese non reagisce tempestivamente, non è preparato ad un affronto così sfrontato, tergiversa spaventato.

Chiedono consiglio al vecchio e cirrotico Chicchiteddu, l’uccellino volato in Venezuela, e lo scomodano dal suo esilio di Caracas per discutere e avere il suo autorevole appoggio.
Ma l’anziano boss, protagonista di un tempo ormai al tramonto, è stanco e malato, consiglia di pazientare.
Pazientare cosa? Non vi è più tempo, quelli azzannano!

Badalamenti, Calderone e Di Cristina tentano il contrattacco, ammazzano Francesco Madonia, burattino di Totò e Binnu. Tra i signori della Cupola è lite.
Riina è furente, dice che la colpa della morte di Madonia è di Gaetano Badalamenti. Lo accusa senza mezza misure, convince gli altri emeriti che Badalamenti è da tempo che si fa i suoi affari con l’eroina negli Stati Uniti, che ha messo su canali personali per lo smercio, quell’avido egoista figgiu de buttana, di nascosto, senza condividerne i frutti con i suoi amici, come da legge.
Don Tano Badalamenti si trova isolato. La tattica di indebolire le alleanze del nemico e mettere zizzania tra le sue fila sta funzionando.
Rozzi e ignoranti questi corleonesi, però furbi e cattivi. Per salvare la pelle, Don Tano abdica da segretario della Commissione, e a gambe levate ripara in Brasile.
Il clan di Corleone impone al posto del fetuso il suo uomo di fiducia: Michele Greco. Il Papa è il nuovo pontefice di Cosa Nostra.
Di Cristina, sconfitto, solo, con gli altri boss del palermitano che gli voltano le spalle, vive nel terrore. Non può tentare nessuna reazione militare, non avrebbe alcuna possibilità contro le Bestie.
La Tigre ha paura, trema come un micio sotto la pioggia. L’ultima possibilità appare mossa davvero ultima e disperata per un mafioso. Si rivolge ai carabinieri. È un fiume in piena di parole, di chi non ha davvero più nulla da perdere perchè già sente la lama della scure del boia accarezzargli il collo.
Fa i nomi di Riina, di Provenzano, racconta dei loro omicidi, delle loro manovre, della loro ferocia.

“Dovete arrestarli! Arrestateli tutti!”

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Una manciata di settimane dopo e la Tigre chiacchierona è abbattuta a colpi di 38 Special, alla periferia di Palermo (foto). In tasca gli trovano degli assegni intestati a mercanti di droga e a Michele Sindona, famoso faccendiere nuotatore nelle acque più torbide e lerce della finanza.
La storia della Prima Repubblica va così, come in un romanzo dai ricchi colpi di scena, una fiction nera in cui più storiacce si intersecano tra loro, figlie dello stesso male.
Il prossimo della lista è Pippo Calderone, rifiugiatosi in un residence di Acireale. Cade per tradimento. È infatti il suo braccio destro e “fedelissimo” a sparargli, dopo essersi accordato con Riina e aver teso una trappola al suo ex boss.
Il traditore prezzolato si chiama Benedetto “Nitto” Santapaola. Il gentleman di Catania vende cocomeri. Nel tempo libero, si lega a grossi imprenditori e mette le mani sul casinò di Campione che usa come luccicante lavatrice per lavare e riciclare miliardi di lire, a dozzine.
Nitto soffre di una rara forma di licantropia clinica, lo chiamano “il licantropo.”

Stefano Bontate e il suo potente alleato e socio in affari Salvatore “Totuccio” Inzerillo, uomo con forti agganci nella DC, col clan Gambino di Brooklyn e con il finanziere-stregone Sindona, fanno quadrato, tentano di resistere all’avanzata dei viddani, rimanendo ancora fermi sulle loro posizioni senza ancora raccogliere le continue provocazioni di Riina, il cui peso è sempre più ingombrante.
La Cupola di Palermo è ormai cosa sola con il clan di Corleone e le sue truci volontà.
Le Bestie capeggiate dalla Belva e dal consigliere Binnu u’ tratturi impongono alla Commissione, ormai sottomessa con la paura e la diplomazia del Papa, le condanne a morte di personalità scomode.
Cadono il poliziotto Filadelfio Aparo, il giornalista Mario Francese, il segretario provinciale della DC Michele Reina, il vicequestore Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova con la sua guardia del corpo Lenin Mancuso, il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile.
Chiunque osi intralciare la marcia unna dei provinciali viene schiacciato senza pietà, il clan ha rodato una macchina di morte efficientissima.

Il golpe è compiuto, il potere, tutto e subito, è preso. Ora, bisogna sbarazzarsi di tutti i nemici, degli ostacoli, e di tutti i vigliacchi che non hanno preso posizione. Le Bestie possono iniziare la seconda fase, e liberare i cani rabbiosi dai guinzagli. Sarà la madre di tutti i regolamenti di conti.
Il pretesto per fare la guerra totale arriva dalla cosca degli Inzerillo il cui capo, Salvatore, ordina l’assassinio del giudice Gaetano Costa, senza l’approvazione della Commissione. Totuccio vuole dimostrare all’amico Bontate, agli alleati rimasti e ai viddani che anche lui è in grado di ammazzare chiccessia, che quei cafoni badino a fare attenzione, farebbero meglio a stare al loro posto, gli zappaterra.
È  l’ultima goccia di guerra fredda prima che essa diventi calda.
Il 6 settembre 1980 due sicari entrano nel convento di Santa Maria del Gesù, a Palermo.
Cercano la cella di Frà Giacinto Castronovo. Non male come cella francescana, ben sette stanze. Le chiacchiere bisbigliano che presti denaro ad usura e che sia il padre spirituale della famiglia Bontate.
Gli sparano in testa. Nessuno si stupisce della sua morte. I suoi confratelli si stringono nel riserbo più assoluto.

“Padre Giacinto non diceva più la messa da un pò di tempo.”

E

“Chi è senza peccato scagli la prima pietra.”

Nel cassetto della scrivania del frate viene trovato un revolver calibro 38. L’omicidio del religioso dalle cattive amicizie segna l’inizio della seconda guerra di mafia. Gli spari al convento danno il via alle ostilità.

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Bontate e Inzerillo, insieme agli altri boss della vecchia guardia palermitana anticorleonese si riuniscono per pianificare l’eliminazione di Riina, nemico numero uno. Incauti, le loro parole rabbiose di vendetta sono ben captate dalle orecchie-spia di Michele Greco (foto).
Il Papa riferisce al suo protetto-protettore. U’curtu reagisce subito.
Sparisce per sempre, inghiottito dalla rappresaglia chissà come e dove, Giuseppe “Piddu” Panno, capo-mandamento di Bagheria e Casteldaccia. Lupara bianca per Piddu.
Colpo su colpo, Bontate ordina di ammazzare due uomini di Corleone. Poca cosa per i viddani, sono perdite accettabili e già messe in conto.
Uccidete Bontate, uccidete Inzerillo! Questo è l’ordine indiscutibile dato all’esercito fantasma di piciotti arruolati in provincia, fedeli e fanatici, addestrati a sbucare dal nulla per colpire a morte e a sparire dallo stesso nulla da cui sono comparsi.
Non imbracciano più i vecchi arnesi del mestiere come le doppiette da caccia a canne mozze. Gli arsenali del clan forniscono ai dipendenti della ditta kalashnikov, mitragliette, silenziatori, esplosivo al plastico, divise da sbirri.
Si sono modernizzati. 
La camera della morte delle tonnare di Palermo è affollata di pesci grossi in trappola, i pescatori calano gli arpioni in acqua, traffigono, lacerano.
Sangue, a fiumi.
È la mattanza.  

ITALICA NOIR - Mattanza numero due (1978-1985)
Il 23 aprile 1981, Stefano Bontate soffia sulle candeline della sua torta di compleanno. Compie 42 anni e nonostante i problemi è ricco come un creso.
Indossa un abito di ottima sartoria, ha al polso un Vacheron Constantin, tiene in tasca 5 milioni di lire, ha infilata nella cinta una piccola 7.65 Parabellum.
Dopo la festa, sfreccia per le strade di Palermo con la sua nuova Alfa Romeo Giulietta 2000 super. Ad un semaforo, verso la mezzanotte, Riina gli porta i suoi auguri di buon compleanno (foto).
Gli fanno una seconda festa, questa volta definitiva, e invece di tappi di champagne, il suono è di scariche di lupara e raffiche di fucili d’assalto.
Ad avvertire la fazione opposta degli spostamenti del boss è Pietro Lo Iacono, suo vice, che aveva partecipato alla festa di compleanno. Pure Michele Greco, vecchio amico, è tra i mandanti.
Anche il fratello minore di Stefano, Giovanni Bontate, si è accordato con il nemico: brama il potere del capofamiglia, lo vuole vedere morto. Le serpi hanno lo stesso sangue, cospirano a casa della vittima, la baciano affettuosi, e la pugnalano alle spalle.
Ai funerali, ci vogliono cinque camion per trasportare tutte le corone di fiori in omaggio al defunto.

L’11 maggio 1981, tocca al suo socio Salvatore Inzerillo. Si è comprato una nuova auto, blindatissima, ma non basta. Quando esce dalla casa dell’amante in via Brunelleschi a Palermo un commando sbuca fuori da un furgone: viene falciato dal fuoco ravvicinato di kalashnikov e di fucile a pompa calibro 12.
Lo colpiscono in faccia, il cadavere è irriconoscibile.
Morte a tutti gli Inzerillo! Il figlio di Salvatore, un ragazzo di diciassette anni, giura di vendicare il padre. Piccolo lupo accecato dall’odio, si mette sulle tracce degli assassini. Viene scoperto a spiare una riunione di capi corleonesi. Gli chiedono:

“Con quale braccio volevi uccidere Riina?”

Gli tagliano di netto il braccio destro. Dopo un po', lo finiscono.

Santo Inzerillo, fratello di Salvatore e zio di Giuseppe, è vittima di lupara bianca. La famiglia scappa dalla Sicilia, battuta e terrorizzata, per chiedere la protezione in Stati Uniti del gangster Carlo Gambino, loro parente stretto.
Diventano "gli scappati”. Nemmeno in America però possono stare al sicuro dalla ferocia della Bestia.
Pietro Inzerillo, viene ritrovato cadavere dentro un bagagliaio di un’auto parcheggiata nel New Jersey. In bocca gli hanno infilato cinque dollari, altri due dollari glieli hanni messi tra le palle.
Simbologia del boia.

Il sangue eccita le Belve, non si fermano più. Il luogotenente di Bontate, Mimmo Teresi, viene strangolato insieme a quattro suoi picciotti. Il giorno di Natale del 1981, a Bagheria si fa la guerra.
Una violenta sparatoria scoppia nel centro della cittadina: la cosca di Villarbate è decimata. Rullo compressore made in Corleone. I marciapiedi di Palermo sono affollati di cadaveri.

La nazimafia di Corleone sceglie una strategia militare che sia definitiva. Die Endlösungsoluzione finale. Per portarla a termine si affida alla propria scuderia di killer.
Di seguito alcuni profili di divoratori di vite altrui, giocatori di un terrificante campionato di assassini seriali.

Filippo Marchese. È capo indiscusso del clan di Corso dei Mille.
Filippo possiede un mattatoio per macellare esseri umani, un lurido appartamento composto di tre stanze in un vicolo tra piazza Scaffa e piazza Sant’Erasmo.
Lo chiamano “il covo degli orrori”.
Palermo ha il suo inferno privato tra quelle pareti che grondano sangue e urla. La Storia d’Italia, qua tocca uno di suoi punti più orribili, si fa splatter. Funi. Ganci. Garrota. Acido. Pelle umana. Desaparesidos di mafia.
Filippo, il macellaio di Corso dei Mille, finisce come molte sue vittime, e nel 1983 fa il bagno nell’acido.

Giuseppe Greco detto “Scarpuzzedda”. Killer d’eccellenza, è molto vicino a Riina.
Gli si attribuiscono 58 omicidi. La squadra della morte in cui opera, compie gli attentati più eclatanti del tempo, come quello del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (3 settembre 1982).
Muore nel 1985 per volere del suo stesso boss che lo vede come un possibile rivale.
Gli esecutori, sono i suoi stessi vecchi compagni d’arme. Suonano alla porta e lui li invita a salire per un caffè, l’ultimo della sua vita.

Giuseppe Lucchese detto “Pinuzzu occhi di ghiaccio”. Campione italiano di kickboxing  negli anni 1982 e ’83. Affidabile membro della squadra della morte dei Corleonesi.
Lo contraddistingue la ferocia disumana.
Sua cognata, mentre il marito è in gattabuia, fa l’allegra con altri uomini. L’ammazza.
Sua sorella, tradisce il marito con un cantante neomelodico sciupaffemine, tale Giuseppe Marchese conosciuto nei rioni come “Pino il Cantante”. Ammazza anche la sorella. E poi ammazza anche Pino il Cantante. Lo trascina in un magazzino, gli trancia i testicoli e glieli mette in bocca.
Giuseppe Lucchese, nella vita, ammazza.
Quando l’arrestano gli trovano in cantina undici miliardi di lire in contanti.

ITALICA NOIR - Mattanza numero due (1978-1985)
Fino al 1983, la mattanza non si ferma, i tonni nelle reti sono ancora tanti. Le ditte di pompe funebri di Palermo fanno gli straordinari e i becchini si fregano le mani. Dieci, cinquanta, cento, trecento fosse al cimitero, chissà quante altre senza lapide, e il numero cresce.
Quelle dei giornali siciliani dell’epoca, non sono normali cronache nere ma bollettini di guerra.
Quanto orrore c’è tra le reti della mattanza. Gli aneddoti sono molti.

Alla periferia di Palermo c’è una villetta, dove abita un certo “Tatuneddu”. Tatuneddu fa il “fuochista” per il clan, nel senso che ha la mansione di incenire le vittime in un forno crematorio casalingo. Tra un lavoretto e l’altro, il bravo fornaio fa il pane fatto in casa e arrostisce polli, con quel sapore in più.

Tra Bagheria, Casteldaccia e Altavilla Milicia c’è una terra da Far West, il “triangolo della morte”, dove stragi, agguati, vendette trasversali, dimostrazioni di ferocia primitiva si susseguono ad un ritmo impressionante.
La Sicilia come il Libano, Palermo come Beirut.
I briganti osano strafottenti.

"Se vi volete divertire, andate a guardare nella macchina che è posteggiata proprio davanti alla vostra caserma". Dicono in una telefonata ai carabinieri, dopo aver parcheggiato una 127 rossa farcita di due incaprettati nel bagagliaio.

“Pronto, siamo l'equipe dei killer del triangolo della morte: con i fatti di stamattina l'operazione che chiamiamo "Carlo Alberto", in onore del prefetto, è quasi conclusa. Dico quasi conclusa”.

È la telefonata che i killer fanno al quotidiano L’Ora, prendendosi la paternità della serie di omicidi avvenuti poche ore prima, quasi scimmiottando i proclami terroristici in voga nei tardi ’70.
È il modo macabro dei Corleonesi per dare il benvenuto al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, un nuovo nemico.

“Uccidono in pieno giorno, trasportano i cadaveri, li mutilano, ce li posano fra questura e Regione, li bruciano alle tre del pomeriggio in una strada centrale di Palermo” dice il generale Dalla Chiesa, superprefetto inviato da Roma per combattere la mafia.
Il generale, vittorioso sui terroristi delle BR, cade in un’imboscata insieme alla moglie e all’agente di scorta in via Isidoro Carini.

“L’operazione “Carlo Alberto” si è conclusa” annuncia una telefonata anonima alla redazione del giornale La Sicilia di Catania.

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La “notte dei lunghi coltelli” in versione sicula avviene il 30 novembre 1982. I Riccobono, capeggiati da Rosario, da opportunisti quali sono, salgono al momento giusto sul carro dei vincitori, tradendo l’alleanza con Bontate. Riina non si fida dei voltagabbana, anche se sono passati dalla sua parte. Chi gli dice che poi non facciano lo stesso con lui?
Michele “Il Papa” Greco, organizza una ricco banchetto nella sua tenuta. Viene invitato Rosario “Saro” Riccobono ed altri otto uomini d’onore a lui legati da vincoli di cosca. C’è anche Totò Riina insieme a suoi pretoriani.
È una grassa abbuffata di portate e vino. Rosario, sfiancato dalla mangiata, sprofonda in una poltrona, a russare. Il killer Scarpuzzedda gli si avvicina a passi felpati, vuole giocargli un brutto tiro. Gli sussurra:

“Saro, qui finisce la tua storia.”

Lo strangola mentre digerisce la pasta con le sarde.
Gli altri otto del clan Riccobono, fanno la stessa fine, anche Totò partecipa al gioco delle mani strette sui colli. Dopo pranzo, per i morti, c’è il tuffo nell’acido.

La seconda guerra di mafia, che più di conflitto si tratta di colpo di stato violento all’interno degli organi di potere di Cosa Nostra, ha i suoi vincitori assoluti: i Corleonesi di Totò Riina, viddani bifolchi e nuovi signori indiscussi di un’industria del malaffare multimiliardaria, così arrogante da osare a sfidare lo Stato apertamente nei successivi anni dinamitardi.
Le cifre di quell’ecatombe fanno riflettere.
Si parla di circa mille morti a cui vanno aggiunti altri mille svaniti nel nulla, sepolti in buche o cementificati nei piloni di strade e palazzi costruiti male.
Duemila ammazzati in una manciata di anni.

ITALICA NOIR - Mattanza numero due (1978-1985)
Non sono numeri da criminalità, piuttosto da guerra civile. Basti pensare che in tutta Italia, tra il 1969 e il 1988, le vittime degli anni di piombo, tra omicidi delle BR e altre formazioni dell’ultrasinistra, stragi bombarole, massacri di terrorismo internazionale in trasferta sul nostro territorio e caduti negli scontri di piazza tra giovani rossi e neri, furono “solo” 428 (fonte: La Notte della Repubblica di Sergio Zavoli). In Sicilia (ma pure a Napoli e provincia), si combattevano guerre ancora più violente.
La nostra seconda metà del novecento, apparentemente di pace, nasconde in realtà diversi campi di battaglia figli di una storia minore.
Noi italiani, con terrorismi vari, mafie cannibali, gang in armi, duelli camorristi, abbiamo dimostrato di saper ammazzarci tra di noi con passione anche in tempo di pace o surrogato di essa.
Erano i primi anni ’80, c’era il benessere, e più giù nello Stivale qualcuno moriva strangolato.  

Federico Mosso
@twitTagli

Per approfondire:

Note Musicali

  • Donatella Rettore “Kobra”. Hit del 1980.
  • Loredana Bertè “E la luna bussò”. Hit del 1981.
  • Gazebo “Masterpiece”. Hit del 1982.
  • “La storia ru' zu' Totò” - Menestrallata in onore di Riina, la Belva di Corleone.

Credit fotografici

  • Letizia Battaglia
  • Enrico Genovesi

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