Quando scendevamo dalla corriera, nella luce incerta delle sei, eravamo tutti uguali. Faccia da sonno e colletto della tuta tirato fin sotto il mento, testa pesante e camminata lenta. Ci riconoscevamo solo a pochi metri di distanza, ci salutavamo a cenni per non rovinare il silenzio dell’alba.
Che poi non era mai davvero silenzio: c’erano i motori dei pullman che ripartivano, i cancelli d’ingresso che fischiavano, il battere di cento scarponi e i primi canti degli uccelli. Ma in confronto alla sirena, che ti tagliava in due lo stomaco, era come stare in mezzo all’ovatta.
La aspettavamo trattenendo il fiato, sapendo che avrebbe suonato come ogni altra mattina, ma sperando che non lo facesse. Dicono che fare l’operaio è umiliante, stancante, alienante… un sacco di parole che finiscono in “ante”. Se dovessi sceglierne una direi che è angosciante, per colpa di quella sirena. Noi non abbiamo una voce gentile che ci dice: prego, iniziate a lavorare. Non abbiamo una campanella che dura pochi secondi o un aggeggio che fa uno squillo leggero. A noi tocca quell’urlo disumano e infinito, che annuncia per chilometri il nostro ingresso all’inferno. Ti strappa via un pezzo di cervello ogni mattina, finché non te ne rimane più.
Un mercoledì, però, verso fine marzo del ’61, un suono è riuscito a coprire la lama di ghiaccio della sirena. Era Italo che suonava il clacson. E noi che ci fischiavamo e ci battevamo le mani sopra.
Ci aveva messo cinque anni e mezzo per comprarsi una 600, però ce l’aveva fatta. Ormai non ci credeva più nessuno, erano passati secoli dalla prima volta che aveva detto di “esserci quasi”, e da allora non faceva che ripeterlo ogni mese. Gli davamo pacche sulle spalle e gli dicevamo di sì, come si fa con i matti, ma eravamo convinti che sarebbe morto in sella alla Vespa. E invece lui, duro come una capra, ce l’aveva fatta. A forza di calzini coi buchi e panini alla cipolla aveva messo da parte abbastanza.
Da quella mattina in poi la sirena è diventata un po’ meno angosciante. Preciso com’è sempre stato, piovesse, grandinasse o facessero quaranta gradi, ogni mattina Italo entrava in parcheggio a clacson spiegato nel momento esatto in cui la bastarda suonava. Non che gliel’avessimo mai detto, che il suo strombazzare ci aiutava a tenere alta la testa quando era ora di entrare in fabbrica. L’ha capito da solo. Ci sono cose, nella vita, che uno o le capisce da solo o non serve neanche spiegargliele.
Lui mica me l’ha detto, che mi voleva bene. Non mi ha mica chiesto se eravamo amici, come si fa tra bambinetti. Non son cose che si spiegano. Te ne devi accorgere, tutto qui.
Quando finivamo il turno insieme mi dava sempre un passaggio, anche se poi doveva allungare per tornare a casa. E per ben due volte me l’ha lasciata guidare, la sua 600. A parte quelle due volte, non l’ha mai data in mano a nessuno. Che ci teneva a me l’ho capito. Spero che lui abbia capito che per me era lo stesso, e che non ho mai tradito il suo segreto.
Me l’ha confessato la prima volta che ho guidato la sua macchina, il ferragosto che siamo andati fino a Rimini. Un caldo che si moriva, in autostrada. I sedili pareva ci respirassero sotto la schiena, mandando odore di cuoio umido e scricchiolando a ogni movimento. Il telaio vibrava che pareva si dovesse aprire in due da un momento all’altro. Il vento fischiava fuori dai finestrini, ogni tanto arrivavano zaffate di erba tagliata, di resina o di salmastro, a seconda di quanto ci avvicinavamo alla costa, e tutto era incredibilmente bello.
Ci siamo fermati a un Autogrill per un panino, saranno state le undici della mattina, e dopo un paio di giri di prova in parcheggio Italo mi ha fatto guidare per gli ultimi venti o trenta chilometri. Sulla strada dritta, a velocità costante, me la sono cavata bene, ma appena ci siamo trovati nel traffico di città m’è venuto il panico. Avevo il terrore di far morire la macchina finché cambiavo, allora non aspettavo che salisse di giri e facevo grattare la marcia. Dei rantoli da animale ferito, un rumore orrendo. Ma Italo invece di arrabbiarsi rideva, e ridendo mi dava dell’incapace. Remo, diceva, sei proprio una disgrazia. E giù a ridere di nuovo.
Quel pomeriggio, seduti sotto un pino a fumare una sigaretta, mi ha detto che a lui le donne non piacevano granché. Gli piacevano gli uomini. Mica solo per giocarci a briscola o per fare picchetti col sindacato, gli piacevano proprio come avrebbero dovuto piacergli le donne.
Non mi ha guardato finché lo diceva, ma si sentiva dalla voce che era spaventato. Son cose che gli altri non ti devono spiegare, ma che se fai attenzione te ne accorgi.
Allora gli ho detto che non c’era niente di male. Che non era malato, che non era matto, era solo un po’ strano. Ma strano mica in modo brutto. Strano e basta.
Non gli potevo dire: Italo, te sei mio amico e lo saresti anche se fossi verde e ti piacessero i conigli. Ma era uno che le cose le capisce. Non gli ho detto neanche che, siccome ero suo amico, poteva stare tranquillo, che il suo segreto non l’avrei raccontato a nessuno. Mi sono alzato, gli ho appoggiato una mano sulla spalla, sono stato un minuto buono fermo là e poi gli ho detto che se ci provava con me gli tiravo un pugno sul naso. S’è messo a ridere come un matto, una risata vera che gli ha buttato fuori tutta l’aria dai polmoni e tutti i brutti pensieri dalla testa, s’è alzato anche lui e m’ha detto grazie.
Quell’unica volta ha sentito il bisogno di dire a parole quello che sentiva. Anche se non era necessario, l’avevo già capito da come aveva riso.
Il suo segreto ovviamente non l’ho mai raccontato. Siamo stati amici, grandi amici, per tutto il tempo che è rimasto vivo. Abbiamo continuato ad andare in giro sulla 600 e me l’ha fatta guidare di nuovo, anche se continuavo a grattare la marcia come un disperato. Avrei imparato le volte dopo, forse, ma in qualche modo il suo segreto è arrivato a chi non lo doveva sapere, e una notte Italo è finito con la macchina contro un palo.
Lui non era uno che correva forte, e certe voci di paese dicono che la 600 aveva bozzi sulle fiancate oltre che sul muso e che lui aveva lividi sulla schiena oltre che sulla fronte. Per anni hanno detto che non era stato un incidente, ma son quelle cose che si raccontano ad alta voce solo quando si sa che nessuno si prenderà mai la briga di scoprire se sono vere o false.
Ancora oggi non so cosa gli sia successo davvero.
So solo che la mia prima macchina l’ho comprata a quarant’anni suonati e che non ho mai imparato a fare la doppietta, perché senza Italo non sarebbe stata la stessa cosa. So che era una brava persona e che non aveva niente di sbagliato. E so che non serve dirlo, perché ci sono cose, nella vita, che uno o le capisce da solo o non serve neanche spiegargliele.
Il racconto che avete letto è opera di Bee ed è risultato il migliore del Lab di giugno 2015.
La traccia del Lab era stata scelta da Raf (vincitore dello scorso Lab) ed era la seguente:
I protagonisti dovevano utilizzare un mezzo di trasporto.
Bisognava, inoltre, trasmettere al lettore le sensazioni, le emozioni del viaggio.
I racconti dovevano essere lunghi al massimo 7000 caratteri spazi inclusi (con un margine di tolleranza di 200).
Bee
Chi sonoEx miope, ex maestra, ex fumatrice, ex ragazza di parecchi idioti… so cosa sono stata, purtroppo non riesco ancora a vedere cosa sarò. Intanto leggo, scribacchio e perdo tempo. La parola che scrivo più spesso: MA.
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