Grande scrittore ma, come Ivan Turgenev, poco noto da noi.
Ebbe la ventura di vivere in quello che possiamo definire il secolo d’oro della letteratura russa, schiacciato fra geni come Tolstòj, Dostoevskij e Čechov.
Il suo romanzo più famoso è “Oblomov” (1859). Dal nome del protagonista è derivato il termine “Oblomovismo”, quella malattia dell’anima che paralizza la volontà, allontanando chi ne è colpito dal fluire della vita, vista come un mero susseguirsi di eventi, da osservare con indifferenza, rifugiandosi in quel torpore che a volte si anima di visioni, di slanci che sembrano far coincidere la nostra realtà interiore con quella esterna, ma si spengono al primo contatto con essa.
Non so se questa si possa definire depressione; non credo che lo scrittore avesse contezza, a metà dell’Ottocento, di una specifica condizione evidenziata solo decenni dopo dall’analisi psicologica. In lui non c’è ancora quella sensibilità matura che troviamo ad esempio nel nostro Italo Svevo, già impregnato di quella cultura mitteleuropea che aveva inventato la psicanalisi.
L’analisi del suo personaggio è tuttavia profonda, anche se un po’ sfumata rispetto all’approccio più “scientifico” di autori che sarebbero venuti dopo di lui.
Lessi Oblomov in gioventù e quel personaggio mi ispirò una simpatia che coltivo tuttora, forse perché in alcuni dei suoi tratti mi sono riconosciuto.
“In via Gorochovaja, in una di quelle grandi case, la cui popolazione sarebbe stata sufficiente per tutta una città di provincia, se ne stava di mattina a letto nel suo appartamento Ilja Iljič Oblomov.
Era questi un uomo di trentadue-trentatré anni, di media statura, di aspetto piacevole, con occhi grigio-scuri, ma nei tratti del volto privo di qualsiasi idea determinata, di qualsiasi concentrazione. Il pensiero passeggiava come un libero uccello sul suo viso, svolazzava negli occhi, si posava sulle labbra semiaperte, si nascondeva nelle rughe della fronte, poi scompariva, e allora su tutto il volto si accendeva l’uniforme colore dell’indifferenza. Dal volto l’indifferenza passava alle pose di tutto il corpo, perfino alle pieghe della veste da camera.”
(“Oblomov, incipit)
Federico Bernardini