Virus è una narrazione complessa e lineare, un grande affresco accorato e cordiale, corale e discorde, di epicità negativa e popolare, di epica epocale di derelitti e di dannati; si potrebbe anche dirla un’opera-mondo, per l’ampiezza di spettro e prospettiva, per l’ospitalità delle tante microstorie feriali, quotidiane e marginali. Storie dell’abiezione, per l’accoglimento di una lingua che spalma i suoi registri attraverso le nuove parole della “voce telecratica”, attraverso un nuovo idioma o alfabeto globale. (…) L’opera è strutturata e ripartita in varie sezioni, come le stazioni di una contemporanea via crucis, che rappresentano a vario grado l’attraversamento delle stanze e degli stadi di una “rivoluzione-mutazione silenziosa”, in cui è dato di cogliere gli stigmi e la Stimmung dell’epoca presente. (…) Accade così che accanto alla evocazione memoriale dei carri merci e dei carri bestiame, echi ed incubi di passate deportazioni, di esodi, di foibe e di ghetti, faccia il suo ingresso la cronaca presente articolatamente trasfigurata: gli sbarchi, i terremoti, le violenze sessuali, i delitti, le incerte imbarcazioni di migranti e i perseguitati, accanto alle vittime di ronde e ai carnefici dei più deboli, nei rigurgiti di razzismo occidentale non più solo strisciante…
Manuel Cohen
***
Dopo il ritrovamento a Breving di fosse comuni
(Come nel diciotto dimenticati
i nomi dei bambini e delle donne.
I morticini buoni senza colpa
se non di stare lì per altrui scelta)
***
(Coro)
Padre un sorriso al giorno mosso sui tanti
omini senza gloria nome sesso
mammiferi anche loro in mezzo a noi
contati con quel senso di disagio
perdona almeno questo se lo puoi
la dipendenza prima del contagio
***
(Onda – Abruzzo)
Giocano, le testoline rasate
i grandi più in là in attesa di un pasto.
Questo brulicare come formiche
in fila indiana nonostante tutto
(hai sfogliato il tuo libro americano
socchiudendo gli occhi nessuna nuova
dal fronte solo calma irriverente
e numeri freddi da dopo oblio.
Vorresti sollevare i corpi, dire
in mezzo a questo niente affondo anch’io)
***
(mediterraneo, mare oceano)
Non hai che un nome provenienza incerta
stretta forte all’onda quando frena
e scivola la barca di Caronte
ma lui ti chiede ancora salva il mondo
un piccolo favore per quegli altri
dal puzzo e le sembianze di animali
la bocca con la bava poi si asciuga
un’altra almeno solo questa volta
ti giuro sorellina dopo smetto
le gambe strette il fiato contro il fiato
così finiva il sogno e ti lavavi
provando la salsedine l’amaro
e sotto ancora il mare l’incertezza
la terra mai vissuta mai promessa
***
Nella loro stretta di mano muti
come i pesci cresciuti nell’acquario
salgono in macchina annaspando un po’
col temporale addosso, tutta pioggia
che scende a sipario e Milano è un luglio
di palazzi bagnati senza l’ombra.
Un sorriso soltanto e poi sparire
nell’ac’qua che fagocita e non sembra.
***
Commiato
zattere valigie treni piombati carri di appestati untori c’è un giorno nero di nomi strappati bonifiche di terre dal male impuro chi domina è domato la paura il peccato così oggi ieri da sempre un carnefice per tutti che affila la lama e aspetta
(è l’occidente la pietra angolare
del mondo dove i monatti raccolgono
l’antica pietà sui carri e la peste
avanza corrompendo nei sorrisi
i resti di una specie senza volto)
***
Per Ivan
Come quasi sempre capita, nelle situazioni più inspiegabilmente naturali della vita – le più rare, d’altronde – ho conosciuto Ivan Fedeli nella pausa di una serata di lettura a Monza, organizzata da Poesiapresente, qualche anno fa. Un rapido saluto e, quasi ci conoscessimo da sempre, la promessa di una qualche forma di collaborazione. Che poi c’è stata, visto che è stato proprio Ivan a segnalarmi Aìsara, dove lui aveva appena pubblicato e dove subito dopo è apparso il mio libretto NELLA STORIA.
E’ fatto così Ivan: ha quell’approccio che posseggono le persone semplici e schiette, quelle con cui una volta si tagliava una fetta di pane e si beveva un bicchiere di vino senza che ti chiedessero la carta d’identità. Persone prima che poeti; è il modo migliore, tra i poeti, per prendersi le misure, l’unico modo per capire bene, ma dopo, e non prima, le motivazioni della propria opera, delle scelte fatte, i perché di queste scelte. Si può essere irrimediabilmente diversi nel modo di intendere la parola e la poesia, quasi fino allo scontro, e invece calorosamente e apertamente simpatetici nel parlarsi, nel ragionare sulla limitatezza delle nostre e delle altrui vite – sempre che si possegga una buona dote di autoironia e di disillusione! – Ci si può intendere nelle cose della razza umana, ed essere furibondi e arrabbiati nel discutere di poesia, facendo prevalere il proprio irrimediabile punto di vista narcisistico.
A volte bisognerebbe leggerle così le opere dei poeti; discoste e lontanissime dai loro autori da relegare nell’anonimato, piuttosto che cacciarci nella trappola – ma quanto necessaria, una volta conosciuti questi poeti! – di un giudizio severo che non può far meno di considerare vita, rigore, sensibilità, umanità.
L’opera di Ivan ha una sua necessità, ha un linguaggio scoperto alle origini che non bisogna scoprire tutte le volte. E’ un’opera che si basa su poche e salde certezze stilistiche, che non rappresentano solo una questione di forma, ma di un contenuto che si lega a un certo modo di parlare; procedimento lontanissimo dal mio, dagli smozzicamenti che il lirismo, in genere, ci concede prima della pienezza. In Ivan la voce è sempre piena, come un fiume che scorre tumultuoso e sicuro; trascina vite, vicende, sdegno, dolore. Ci sono modi per valutare un’intera opera che per forza di cose non possono passare solo dalle stanze dello stile. In Ivan lo stile è anche qualcosa d’altro e probabilmente ha un poco a che fare col come è lui.
Recentemente, nel corso di una furibonda litigata con un poeta che pensavo mi stimasse tanto – questo succede quando i poeti si parlano a visu, non quando si parlano alle spalle – è venuto fuori, tra le altre cose, che la diversità sarebbe una parola di moda. E, tra le altre cose, che non importa alla poesia come uno è; che cosa, del suo mondo, della sua vita, porta dentro le parole, in quanto la poesia procede da sé, non vuole stampelle, non vuole neanche dediche. Ma ritorniamo alla diversità: io, insomma, ribadivo che la diversità è una cosa naturale, naturalissima e necessaria, basta ammirare il susseguirsi delle forme degli abissi che, come in una giostra mostruosa, ti ballano davanti. Io credo che la poesia non possa, come forma naturale della rappresentazione biologica, che mostrare la bellezza o la mostruosità delle sue numerose facce, senza imporre un punto di vista particolare. Distante anni luce nel modo di procedere della scrittura di Ivan – ma forse, anzi, senza forse, con Ivan condivido un certo pathos, un certo modo di indignarsi usando la parola forte, a volte – non possiamo, davanti a questa scrittura, nasconderci dietro il sipario della nostra tragicità dichiarata ante litteram e, credo, l’errore più grave di certa poesia tragica dei nostri tempi, sia stato quello di considerare il dolore come una rappresentazione archetipica del mondo, non la declinazione necessaria, il teatrino di una farsa che vuole sempre rappresentazioni e parole diverse.
E’, insomma, l’opera di Ivan Fedeli, commedia, varietà delle rappresentazioni del dolore, conoscibili solo in quanto ripetibili, e forse per questo le sue strutture strofiche, metriche, sono così riconoscibili.
Sebastiano Aglieco