J. EDGAR (Usa 2011)
Vita, morte, amori, deliri e successi di John Edgar Hoover, direttore dell’Fbi dal 1924 al 1972. Per quasi mezzo secolo questo personaggio bruttino, antipatico, paranoico, anticomunista, moralista e razzista fu, tra luci e ombre, l’uomo più potente d’America.
Quante cose da dire su questa ultima fatica (è proprio il caso di dirlo: 137 minuti che volano in un lampo) cinematografica dell’instancabile ultraottantenne Clint Eastwood! Andiamo con ordine.
1 – Il protagonista. Non so molto a proposito di J. Edgar Hoover. Certo, come tutti l’ho sentito nominare molto spesso in film, romanzi e serie tv, ma la sua figura rimane, almeno qui in Italia, avvolta nel mistero, nelle fitte brume dell’epos americano, in quel novero di personaggi misconosciuti al limite tra eroismo e depravazione, insieme ad Al Capone, John Wilkes Booth, Jesse James e Lee Harvey Oswald. Bellissima la descrizione che di lui fornisce Don De Lillo nel monumentale Underworld, nelle cui pagine Edgar è sconvolto dalla visione, durante una partita di baseball, di una riproduzione del Trionfo della morte di Bruegel. E una persistente sensazione di morte caratterizza anche la pellicola di Eastwood: una morte in vita, una morte fatta di rinunce (all’amore per un altro uomo, fatto impensabile per l’epoca), di solitudine, di perenne rancore. Per la lettura che ne è stata data in questo film, Hoover mi ha fatto pensare più di una volta al Giulio Andreotti dipinto da Sorrentino nel Divo: entrambi personaggi potenti ma soli; entrambi capaci di piegare a proprio vantaggio, con mezzi leciti e illeciti, le regole e i vuoti del sistema ma incapaci di condurre una vita normale e soddisfacente; entrambi spalleggiati da una segretaria silenziosa e fedele custode di un “archivio segreto” in grado di zittire, con i suoi imbarazzanti segreti di stato, anche i personaggi politici più influenti. Se fosse vissuto in Italia, Hoover avrebbe sicuramente saputo giostrare a suo vantaggio chiesa, mafia, terroristi e quant’altro. L’America gli permise invece di rivoltare come un guanto il Bureau, che sotto la sua direzione divenne uno degli enti investigativi più avanzati ed efficienti al mondo. Fu Hoover, tanto per fare un esempio, a introdurre l’utilizzo sistematico delle impronte digitali per combattere il crimine. Un genio e un innovatore, a suo modo.
2 – Il film. Con la consueta classe, Eastwood ci regala un’opera che è un capolavoro di ritmo, misura ed eleganza. È veramente raro riuscire a trovare pellicole che, come questa, sappiano, come dire, coinvolgere con un simile distacco. Non c’è condanna, non c’è esaltazione, non c’è gossip né revisionismo: Hoover, l’Fbi e l’America dei primi decenni del Novecento ci vengono mostrati per quello che probabilmente erano, con tutte le scomode contraddizioni del caso. Lo stile è puro distillato di Clint al 100%: sobrio, sotto tono e dominato dalla cupezza di colori, musiche e ambientazioni. Notevole, in particolare, il lavoro svolto sul montaggio: i piani spaziali e temporali si intersecano costantemente in modo sulle prime un po’ spiazzante ma sicuramente originale e coinvolgente, dando al film un ritmo incalzante e mai noioso – nonostante qualche sbrodolamento nel finale. Riuscitissimo è anche il discorso relativo alla (presunta per alcuni, qui data per certa) omosessualità del protagonista, condizione che lo spettatore arriva a conoscere in maniera graduale e quasi naturale, senza il ricorso a outing o illuminazioni improvvise che in un simile contesto sarebbero risultati decisamente fuori luogo. È la modestia – nel senso latino del termine – il punto di forza di questo grandissimo regista, e J. Edgar ne è ennesima e riuscitissima prova.
3 – Il cast. Leonardo DiCaprio nella parte principale è semplicemente perfetto. Che dire? L’interpretazione migliore della sua carriera, per un Oscar che – complice un trucco capace di imbruttirlo e invecchiarlo in maniera credibile – a questo punto mi sembra davvero inevitabile. Accanto a lui un manipolo di buoni interpreti, alcuni anche piuttosto famosi (Naomi Watts, Judi Dench), le cui parti, però, quasi soccombono di fronte alla complessità e alla profondità di un J. Edgar che spadroneggia dalla prima all’ultima scena. Se il film non è il capolavoro totale che sarebbe potuto essere, però, è paradossalmente colpa dello stesso DiCaprio e della sua fama eccessiva. “Se possiamo avere la star più famosa di Hollywood – avranno pensato Eastwood e i suoi produttori – perché usarla soltanto per metà film?”. Motivo per cui DiCaprio interpreta Hoover tanto da ventenne sbarbatello quanto da settantenne scafato e moribondo. Ripeto, sul trucco di questo personaggio niente da dire, ma per quanto riguarda i coprotagonisti è stato fatto un lavoro decisamente più approssimativo: Armie Hammer in particolare, classe 1986, nella parte dell’amante di Edgar, Clyde Tolson, truccato da ottantenne fa veramente ridere i polli. E in ogni caso il film ne avrebbe senz’altro guadagnato se anche il vecchio Hoover fosse stato interpretato da un attore dell’età giusta. Magari proprio da Clint Eastwood in persona.
Alberto Gallo