Published on ottobre 27th, 2014 | by radiobattente
0Le storie di Kurt Cobain, Janis Joplin ed Amy Whinehoyse, segnate da una tragica fine che non ha spezzato la loro musica.
“È invariabilmente triste guardare con occhi diversi cose alle quali ci eravamo abituati” scriveva Fitzgerald nel lontano 1925. Ed effettivamente, per noi che abbiamo attraversato gli anni ’90, era del consumismo, del benessere economico e degli idoli musicali, è facile credere che la ricchezza, il successo e la popolarità siano il meglio che ci si possa aspettare dalla vita. Poi, però, arriva un suicidio, il colpo sordo di un fucile che spara tra le mura asettiche di un garage e quel mondo che ci appariva perfetto comincia a sgretolarsi dinnanzi alla forza distruttrice delle fragilità umane che non conoscono censo.
Era il 5 aprile del 1994 e Kurt Cobain, leader dei Nirvana, alla tragica età di 27 anni, con un colpo di fucile, poneva fine alla sua esistenza travagliata. Drammaticamente rivelatrice la frase posta in limine alla lettera di commiato di Cobain, una sorta di testamento spirituale che restituisce al suo pubblico la tragicità di una vita che avrebbe potuto essere perfetta, ma che non lo è stata. “È meglio vivere ardendo che spegnersi lentamente”, scrisse, infatti, in quella stessa lettera che, in fondo, potrebbe essere considerata una dichiarazione di poetica. Parole, le ultime di Cobain, che esprimono perfettamente il senso di disagio patito da un’anima in fiamme quale era evidentemente la sua; uno spirito empatico che non trovò mai quel Nirvana che per i buddisti rappresenta l’assenza di dolore e che, non a caso, identificava la band di cui Cobain era il frontman.
Ed è proprio il dolore, col suo carattere tristemente universale, la cifra stilistica che, in fondo, accomuna le esistenze tragiche e insieme straordinarie di tutti quegli artisti che sono diventati grandi senza mai essere cresciuti. È il caso di Janis Joplin, probabilmente uccisa da una massiccia dose di eroina. Il suo corpo esanime venne rinvenuto diciotto ore dopo il decesso in una camera d’albergo. Capelli vaporosi e occhiali tondeggianti incorniciavano il volto paffuto di quella ragazza che viveva secondo i dettami sessantottini, ma che pare cercasse la pace e l’amore in quei “paradisi artificiali” che già nel 1860 Baudelaire descriveva. Anche Janis, come Cobain, lasciò tragicamente il mondo a 27 anni, entrando a far parte della già folta schiera di artisti venuti a mancare a quell’età, considerata, non a caso, funesta in ambito musicale. L’ultima vittima della “maledizione del 27” è stata la regina del “soul bianco”: Amy Winehouse, la cantautrice londinese che truccava forte gli occhi, ritrovata priva di vita nel suo letto alle 15:53 del 23 luglio 2011. Oscure le cause della morte, per i più causata dagli eccessi a cui la giovane artista esponeva un corpo già segnato da comprovati disordini alimentari.
“Se la musica è troppo alta, tu sei troppo vecchio” diceva qualcuno, e Janis, Kurt, Amy e tanti altri come loro, abituati all’urlo affamato delle folle, hanno preferito andarsene in sordina, nel silenzio assordante di una camera che ha accolto lo strazio di un artista, o forse più semplicemente di un essere umano, votato allo sfacelo e destinato all’eterna giovinezza; un essere umano, e solo secondariamente un artista, che, coi suoi tormenti e i suoi eccessi, ci restituisce un’immagine inedita e “invariabilmente triste” di esistenze apparentemente perfette.
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