Jean-Paul Belmondo met un terme à sa carrière d’acteur si legge sui siti di Francia. Niente più cinema, niente più teatro. Sulla scena dell’ancor popolarissimo “Bebel” si spengono le luci e cala il sipario.
Con razionalità e un po’ di cinismo è il caso di dire che era arrivata l’ora. Dopo essere stato per almeno trent’anni uno dei grandi simboli dei nostri “cugini tristi”, Jean-Paul Belmondo, a ottanta primavere compiute, era invecchiato radicalmente. L’ischemia cerebrale, che lo colpì nel 2001, lo aveva tenuto lontano dal grande schermo e dal palcoscenico fino al 2008, senza però intaccarne la popolarità e il seguito di simpatia che lo accompagnava in tutto il Paese natìo e non solo.
Il gossip di pochi anni fa sulla sua avvenente fiamma, la nostra Barbara Gandolfi -più interessata al portafoglio più che al soggetto- aveva però mostrato tutta la lacunosità di un personaggio che invecchiando ostentava un collasso fisico e mentale piuttosto notevole. Eppure alle critiche rispondeva semplicemente: con lei sto bene. Tornò al cinema nel 2008 per un remake di Umberto D, grande capolavoro di Vittorio De Sica, in un ruolo sofferto, che metteva a nudo la sua decadenza fisica, come richiesto dal copione. Tanto che Delon intervenne pubblicamente, indignato per l’operazione di marketing che veniva fatta sui segni fisici provocati dalla malattia del suo amico.
Il duello a distanza ravvicinata tra Jean-Paul Belmondo e l’amico-rivale Alain Delon (col quale recitò in coppia nel memorabile Borsalino) fu uno dei più appassionanti nel panorama dell’elegante cultura cinematografica francese. Alla glacialità marmorea e assai classica del divo dagli occhi blu, Bebel -meno bello ma più caratteristico- contrappose una forte vivacità recitativa, una comprovata duttilità e un senso di slanciata e inguaribile giovinezza che ben si legava a un cinema francese, quello della Nouvelle Vague, che andava diffondendosi in Europa. Fu infatti Fino all’ ultimo respiro di Jean-Luc Godard il film che lo rese un divo nel 1960. Un lungometraggio immortale, ancora oggi studiato, visto e rivisto, trattato specialmente nelle sedi universitarie per la sua importanza storica, quindi assai conosciuto anche dai giovani. E come dimenticare sulla stessa scia il suo volto dipinto in Pierrot le fou?
A Belmondo tutto poteva negarsi tranne che la simpatia, ma sarebbe sciocco pensare che il suo valore di attore fosse legato solo a questa. Il suo talento fu sfruttato quasi in un’unica direzione, ma i risultati nei panni di personaggi negativi, seriosi o cupi, radi per lui, furono eccellenti, e di questo non c’è da meravigliarsi. Dietro la maschera gagliarda di un personaggio guascone si celava una grande preparazione e umiltà di fondo. Lo volle infatti Jean-Pierre Melville come protagonista per tre volte nei primi anni Sessanta, prima in abiti talari, poi in un cupo noir, infine in un personaggio torbido in una storia perversa. Sempre fu impeccabile e lontano dall’immagine di quel baldo ragazzo autoironico che intanto si andava costruendo intorno a lui. Due delle sue migliori interpretazioni furono La viaccia, capolavoro del grande Mauro Bolognini, e Il ladro di Parigi di Louis Malle, lungometraggio di impeccabile eleganza figurativa in cui Belmondo riuscì nell’impresa di assentarsi da ogni esuberanza.
Frizzante come lo champagne, si impose presto in ruoli che lo consacrarono al grande pubblico e che per certi versi ricordavano i grandi divi statunitensi di un certo cinema atletico americano del periodo d’oro, come in Cartouche o nel bellissimo L’homme de Rio, entrambi di Philippe de Broca, il primo vicino al genere di cappa e spada, il secondo un mirabolante viaggio avventuroso e un po’ fumettistico in un’esotica e rocambolesca trasferta brasiliana.
Fra le tante glorie anche molta schiuma: negli anni Settanta svariati polizieschi, forse troppi, non sempre degni del suo talento, talvolta dozzinali, ma mai lontani da un certo decoro. Fra le tante, una mirabile prestazione per un gioiello di Alain Resnais in Stavisky il grande truffatore (1975), film complesso, probabilmente l’ultimo grande della sua sterminata e invidiabile carriera.
Se Jean Gabin sarà per sempre l’icona inopinabile di una certa idea di Francia, e pur ammettendo che un certo Jean-Louis Trintignant superò Bebel talvolta per ricchezza di sfumature, è fuori di dubbio che Jean-Paul Belmondo si decreta per sé stesso, almeno finché Deperdieu è in attività, come il più popolare e amato attore francese di tutti i tempi.
Provi qualcuno a cercare su di lui un solo giudizio negativo da chicchessia: non vi riuscirà mai di trovarlo in Francia, in Italia né altrove nel mondo.
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