Chantal Akerman
Belgio, Francia, 1975
193 minuti
- "Se fossi una donna non ce la farei ad andare a letto con qualcuno che non amo." - "Non puoi saperlo, non sei una donna."
Quando ripenso agli esemplari riediti in dvd della sempre elogiabile Criterion Collection, la mente non può che soffermarsi su quel manifesto ritraente una donna in cucina, tale Jeanne Dielman, intenta a preparare un macinato di carne. E ricordo che all'epoca, ancora abbastanza profano di certo cinema, durante le prime esplorazioni sul sito incappai pure in un video:
un estratto del film (vedibile qui) che riprendeva suddetta scena e dal quale rimasi immediatamente attratto (per la disarmante spontaneità con la quale restituiva quel memorabile frammento di quotidianità) e che il tempo mi spinse a reperire.
Tornando ad oggi, ho finalmente trovato il coraggio di rivedere (dopo circa quattro anni dalla prima volta) quel film; visione impagabile sulla quale in effetti mancava uno scritto, a completamento della retrospettiva Chantal Akerman in the Seventies. Cercherò quindi di scandagliare, per quanto possibile, nell'intimo di quest'opera essenziale ed essenzialista per la quale non basterebbero tre pagine di codesto spazio ad esaustirne contenuto e riflessioni, ma tant'è.
Straordinaria pietra miliare nella cinematografia dell'avanguardista Chantal Akerman (descritto ai tempi della sua uscita, dal New York Times, come "il primo capolavoro femminista della storia del cinema", più che altro in riferimento al suo linguaggio formale ancora inusitato per quei tempi, in circuiti esterni a quello prettamente sperimentale), Jeanne Dielman è, in effetti, considerato quasi all'unanimità il capolavoro della cineasta belga. Lo è, in quanto autentico apogeo del suo periodo migliore (i Settanta); è praticamente l'opera perfetta, che congloba tutte le tematiche presenti nel suo cinema più rappresentativo: sia quelle affrontate antecedentemente, come la capillare osservazione degli ambienti (Hotel Monterey); la sessualità (Je, tu, il, elle); l'alienazione (Saute ma Ville). Sia quelle che sopravverranno, come la distanza; il viaggio; le relazoni sociali; i rapporti materni (News from Home, Les Rendez-vous d'Anna, ed ora, l'ultimo No Home Movie, fruito in quel di Locarno). Con Jeanne Dielman, assistiamo alla lenta e dettagliata involuzione di un'esistenza avvolta nell'asfittica monotonia di un quotidiano logorante, vissuto attraverso la maniacalità di compiti eseguiti con programmatica precisione, e che non possono che condurre col tempo a una debilitazione emotiva e psicologica, fino all'inevitabile collasso, sfociando così in una tragedia preconizzata. Una sorta di perturbante alienazione di ferreriana/dillingeriana memoria, che la camera (rigorosamente fissa) della Akerman cattura attraverso una metodica scansione stilistica dello spazio domestico, e una dilatazione del tempo che riflette di molto quello reale. Tre giorni del vissuto quotidiano di una donna apparentemente comune (vedova e con un passato da ragioniera), ubicata ai piani alti di quella palazzina sita in 23, Quai du Commerce, nella grigia Bruxelles, dove vive sola con il figlio Sylvain, giovane studente che l'impegno scolastico tiene lontano da casa dalla mattina alla sera. La sua esistenza di casalinga scorre (presumibilmente da anni) nell'uniformità di giornate matematicamente tutte uguali, scandite in ordine cronologico dalle seguenti azioni e al contempo da un disagio interiore visibilmente (e progressivamente) percepibile attraverso ogni minimo gesto ed espressione: colazione e sveglia del figlio; risciacquo dei piatti; commissioni mattutine; pranzo fugace; balia al neonato della vicina; pulizia di oggettistica varia; caffè pomeridiano in un elegante locale della città; organizzazione della cena; rassettamento della camera da letto; la visita di un uomo. Uno dei tanti (dei quali non vedremo mai i volti ad esclusione dell'ultimo, il terzo giorno), con i quali Jeanne si prostituisce abitualmente per arrotondare (quello che si presume essere) l'introito costituito da una pensione...
E probabilmente non è un caso che Akerman decida di dare inizio al film (e in tal modo decida di concluderlo, a settantadue ore di distanza, nello stesso arco temporale) proprio con questa tappa-sequenza: un incontro ripreso in fuoricampo dove la mdp si limita a scrutare con discrezione, dall'esterno del corridoio (ma solo per i primi due giorni), la porta chiusa della camera da letto. Probabilmente non è un caso in quanto, nel succitato quadro quotidiano, tale momento rappresenta a suo modo "l'ora oscura" agli occhi (e ai pensieri) di Sylvain, delineando simbolicamente un muro che l'imperturbabilità del presente ha contribuito ad innalzare, oltre che nei confronti del mondo esterno (seppur inappaganti, i rapporti sociali sussistono nei fugaci contatti giornalieri: la spesa, la posta, la vicina di casa e gli uomini, appunto, con i quali Jeanne s'intrattiene) ma sostanzialmente, proprio tra Jeanne e suo figlio, all'apparenza noncurante del silente richiamo d'attenzione della madre, poichè ossessivamente immerso nella lettura e nello studio. Anche se, di fatto, le preponderanti scelte anti-narrative del film portano di conseguenza a svelare poco sul passato dei due, dove le uniche occasioni di un rafforzato dialogo trovano effettuazione solo nelle ultime ore della giornata, dopo gli ultimi immancabili rituali (l'ascolto della radio, la passeggiata serale), è proprio attraverso una di queste conversazioni, esclusivamente incentrate sui tempi andati, che è forse possibile risalire a monte. Sotto l'apparente indifferenza di Sylvain, emerge in realtà una sorta di morbosa gelosia, fondata su timori coltivati dall'infanzia ("allora fingevo di avere degli incubi e ti chiamavo, in modo che papà non potesse penetrarti") e un puntiglioso interesse verso i trascorsi (sentimentali/sessuali) della madre, che in definitiva potrebbero costituire una, tra le possibili chiavi di svolta al drammatico gesto conclusivo attuato dalla donna. La stessa Jeanne sembra infatti rifugiarsi nei ricordi e, soprattutto, negli affetti del passato per sopprimere alla mancanza degli stessi, nell'incrinante monotonia di un presente che la imprigiona come il minuscolo ingranaggio di quell'orologio che al terzo giorno sembra non scandire più il tempo, e che ella osserva di continuo fino alla catartica esplosione finale. L'espulsione di un malessere interiore che non può che sopraggiungere con la stessa dirompenza di un orgasmo, e che presumibilmente, proprio il riconoscimento di un piacere fisico inaspettato durante l'ultimo di quei rapporti (fino a quell'istante, mero ed egoistico privilegio dell'uomo), porta ad uno sconvolgimento dei sensi, e all'ineluttabile scoscendimento definitivo. O più metaforicamente, alludendo alla zuppiera in bella mostra sul tavolo del salotto (freddo involucro dell'inopinabile segreto, in quanto ricircolo del denaro pervenuto durante gli incontri), allo scoperchiamento del cosiddetto vaso di pandora. Quello di Jeanne è un silenzioso urlo verso il mondo esterno ma, soprattutto, un richiamo d'aiuto nei confronti del figlio, come se ella possa finalmente palesare al suo sguardo inavveduto, il reale disagio accumulato nel tempo. Un'espediente certamente estremo, ma forse l'unico conseguibile affinchè Jeanne possa finalmente tornare a riconoscere le emozioni della vita. A vivere, seppur consapevole delle conseguenze che tale gesto potrà comportare... ma vivere.
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