di Saverio Bafaro
La copertina di “Grace” (da Wikipedia)
“Jeff Buckley: Grace e il suo segreto”
Ci sono delle canzoni dallo strano potere, in grado di aprire uno spaccato sul futuro e di potervi vedere oltre. Una di queste è sicuramente Grace, seconda traccia dell’album omonimo di Jeff Buckley del 1994, distribuito a livello internazionale dalla Columbia Records.
Il titolo di questo brano significa letteralmente “grazia” e suggerisce, di primo impatto, richiamo, invocazione, supplica, richiesta di miracolo o liberazione. Ma “grace” è anche ̶ in base all’accezione data dal cantautore americano ̶ sinonimo di stile vocale, di magia incarnata dall’interprete nel far vivere (e rivivere) insieme le dimensioni dell’ubiquitarietà: il qui con l’altrove, la presenza con l’assenza, il materiale con lo spirituale.
Il testo (come altri contenuti nel CD) nasconde, sotto un’epidermide più facile, la densità di una poesia simbolista, con rimandi e allusioni a letture classiche e religiose. L’Amore sacrale e carnale gioca impari la sua partita al cospetto del suo nemico: il Tempo. La bellezza destinata al disfacimento pesa sul cuore, gli fa patire quella dolorosa auto-consapevolezza della transitorietà delle forme e degli ideali, di cui la voce è chiamata a rincorrere perpetuamente i cicli, nel suo tentativo di lasciarne un degno segno.
La doppiezza della natura dell’animo dell’artista, fragile ma anche sovrumano, lo fa accedere alla premonizione, guardare attraverso gli sbarramenti, sondare e disvelare ̶ mediante una visione subitanea ̶ il suo stesso destino. La sua precarietà e il suo coraggio iniziano di fronte al riconoscimento dell’imminenza della distruzione di quelle cose di cui, per lascito romantico, si supponeva che potessero anelare a vita eterna. È l’eredità del dolore “irrisolto”, lasciato ai posteri, nel giro delle vite successive, a destare una preoccupazione dalle tinte morali («It reminds me of the pain I might leave behind» – “Mi ricorda del dolore che potrei lasciarmi dietro”).
Quella eredità deve essere giustificata agli occhi di chi rimane e in quel canto e in quel suono vorrà credere. Fa parte della sfida lottare contro chi vorrebbe infangare l’aura o deridere la sacralità del nome dell’uomo preso dalla sua arte («And I feel them drown my name / so easy to know and forget with this kiss» – “E li sento soffocare il mio nome / così facile da imparare e dimenticare con questo bacio”). Due qualità del tempo si impongono e, in contrasto, si affiancano: da una parte il tempo fisico, inesorabile, dalle ore precisamente misurabili («the clicking of time» – “il ticchettio del tempo”), dall’altra il tempo mentale, dilatabile all’infinito, invocatore di un’attesa insostenibile perché aperta sull’ignoto e sulla perdita («Oh drink a bit of wine / we both might go tomorrow» – “Oh bevi un altro po’ di vino / nessuno di noi due potrebbe più esserci domani”). La fine della scena risultava, in fin dei conti, già ben delineata nell’animo dell’angelo che venderà al mondo la sua voce.
Jeff Buckley (da Wikipedia)
Buckley è stato una figura decisamente anomala nella storia del rock, in grado, però, di apportare, nonostante la brevità della sua esistenza e un solo lavoro registrato in studio, nuovi valori musicali. Chi lo ha conosciuto di persona ci ha riferito come quel ragazzo nato in California, ad Anaheim, nel 1966, desse di norma come l’impressione di “uscire fuori dalla sua pelle”, vivendo così del suo mistero, facendosi veicolo di un dono più vasto. La grazia non rappresentava solo la sua aspirazione, era la sua investitura, il suo abito, la sua pratica. Ha avuto la capacità di trasmettere agli ascoltatori il lato angelicato, la purezza ancora rimasta; analogamente a un cantore eunuco ha profuso un medium vocale in grado di unire misticamente il maschile al femminile, per un’impronta sui generis, più adatta a mettere in comunicazione la terra col cielo.
Dopo la sua morte precoce, ufficialmente avvenuta per annegamento nelle acque del Mississippi, dove Jeff si era immerso per una nuotata, sappiamo che il suo ‘tempo’ è bastato per farlo rimanere accanto al nostro orecchio e che il suo nome non è andato affatto distrutto. La sua voce e la sua musica sono ora una testimonianza di un sacrificio leggibile come più grande. Sono qui disponibili per tutti coloro che ancora lo vogliono ascoltare implorare di aspettare («Wait in the fire!»), come ripete più volte nell’inciso infuocato della sua Grace.
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