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Un bambino fugge dall’orfanotrofio per ritornare a casa. La madre alcolizzata lo ripudia così si rifugia su una chiatta abbandonata dove fa conoscenza con una coetanea.
Jestem (2005) fu presentato in Italia al Giffoni Film Festival ’06. Non conosco con grande precisione i temi, gli argomenti, o più in generale la qualità che costituisce questa kermesse, ma è opinione comune, e opinione mia, pensare a tale Festival come fautore e promotore di un cinema per e sui ragazzi. Il che non va certamente visto sotto un’ottica dispregiativa, si tratta solamente della politica del concorso e sono certo che in 40 e passa edizioni siano stati presentati anche grandi film.
La pellicola di Dorota Kedzierzawska, però, sembra voler far propria l’espressione “cinema per ragazzi” precludendo ogni declinazione dell’adultità.
Attraverso una fotografia autunnale si racconta delle disavventure di questo povero bimbo che sembra accentrare su di sé l’ira – spesso incomprensibile come quella dei suoi pari età – di tutto il paesino. La condizione di abbandono in cui versa dovrebbe avere una forte componente drammatica poiché si tratta di un vero e proprio allontanamento dalla società, dagli affetti, dalla felicità, che ha per protagonista un ragazzetto di neanche 10 anni. Ahimè ciò a cui invece assistiamo è un’astrazione della realtà che vorrebbe connotarsi fiabescamente senza riuscirci.
E non ci riesce perché la discrepanza fra il racconto addolcificato in cui emergono disarmonicamente le dolorose situazioni della vicenda (si tratta pur sempre di un minorenne senza una casa, senza cibo, senza vestiti) e la percezione che abbiamo NOI della storia traslatamente applicabile nel mondo reale, è pressoché incolmabile.
Non avendo intenti di denuncia, e se li ha con le fugaci inquadrature dei ragazzini che si fanno di una qualche droga non riesce a soddisfarli, Jestem si interessa solo e soltanto all’improbabile condizione del suo protagonista (molto espressivo l’attorino) il quale è attorniato da figure fuori fuoco come la bambina con cui stringe amicizia che è già sulla strada dell’alcolismo (perché?), o la madre che lo rifiuta in preda a crisi isteriche senza una spiegazione plausibile.
Il motivo conduttore dell’opera impresso fin dal titolo con quel “io sono” appare poco credibile nonché fortemente romanzato, e l’eventualità che un fanciullo come questo sia nelle capacità di espletare una visione così negativa della vita, teorizza addirittura il suicidio!, risulta piuttosto impossibile. Cosiccome l’ultima battuta che suggerirebbe un’identificazione con se stesso derivante dal micro-martirio che ha vissuto.
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