Il Narciso di Caravaggio
Narciso era figlio, tanto per cambiare, di una ninfa e di un fiume. La mitologia antica e moderna non ha mai saputo spiegare come ciò fosse possibile, ma evidentemente a quei tempi si poteva far l’amore anche con l’acqua. Fatto sta che il figlio nato da questa strana unione era un bambino bellissimo, talmente bello che la gente non smetteva di guardarlo e persino gli dei, notoriamente ben abituati alla bellezza, dovevano ammettere che nemmeno in Olimpo si sarebbe trovato di meglio. La madre allora, piena di orgoglio ma anche preoccupata per la sorte di suo figlio, pensò bene di rivolgersi a un indovino piuttosto in gamba, e scelse quello più in gamba di tutti. Si trattava dell’anziano Tiresia, un personaggio che farà capolino in moltissimi miti, non ultimo quello di Ulisse. Tiresia era cieco, ma quando si trattava di guardare al futuro ci vedeva benissimo: predisse alla ninfa che il bambino sarebbe vissuto tranquillo fino a che non avesse conosciuto se stesso.Salvador Dalì, Metamorfosi di Narciso
Il bambino crebbe sano e robusto, e in breve tempo diventò un adolescente. I ragazzi e le ragazze si innamoravano pazzamente di lui, ma a lui non importava: continuava a vivere la propria vita serenamente, senza badare alle profferte d’amore e tantomeno ai complimenti che gli piovevano addosso ovunque andasse, dalla mattina alla sera. Il ragazzo viveva nell’incoscienza di se stesso, quasi come se il mondo fosse stata un’estensione del suo corpo: la madre non l’aveva mai messo davanti a uno specchio, anzi li aveva rimossi completamente. Una volta un ragazzo, un suo coetaneo di nome Aminia, gli aveva inviato un biglietto con la richiesta disperata di qualche pegno d’amore, specificando che in caso contrario si sarebbe dato la morte. La risposta di Narciso non si fece attendere: gli fece recapitare una spada, con il chiaro invito a realizzare la sua minaccia. Chi non sa circoscrivere se stesso non può nemmeno avere la misura del dolore degli altri. Aminia si uccise davvero, ma prima di farlo invocò sul suo nemico la vendetta degli dei. E gli dei in Grecia si sa, erano particolarmente sensibili a certi tipi di invocazione.Lungi dal sentirsi minimamente pentito per quanto successo, Narciso continuava tranquillamente a mietere vittime. Quella più illustre fu Eco. Era una ninfa dei monti, che abitava le foreste selvagge in cui Narciso si recava qualche volta a cacciare. Caratteristica di questa ninfa era l'inclinazione al pettegolezzo: dovette accorgersene bene Zeus quando le fece intrattenere per un’oretta la propria consorte Giunone, mentre lui se la spassava con una mortale. Quando Giunone venne a scoprire l’inganno, la prese male come al suo solito. Incrociata la ninfa in un bosco, le mise una mano sulla bocca e le gridò: “Da adesso in poi tu non potrai più parlare! Potrai rispondere soltanto alle parole degli altri, ripetendole finché ne avrai forza”. Dopo questa disgrazia si potrebbe pensare che non potesse accaderle più nulla di peggio: ma il Destino decise altrimenti. La povera ninfa, infatti, aveva intravisto Narciso durante una delle sue battute di caccia e se ne era, nemmeno a dirlo, innamorata perdutamente. Tuttavia, per quanto tentasse di entrare in contatto con lui, non poteva far altro che ripetere le sue peraltro svogliate domande: “Come ti chiami?”, “… ami?”; “Che posso fare per te?”, “… te?”. Insomma, Narciso fece presto a stancarsi, e alla nostra ninfa non restò altro che vagare per i suoi boschi consumandosi letteralmente d’amore. In capo a pochi giorni era talmente smagrita da non sembrare più lei, e nel giro di pochi altri divenne difficile persino vederla. Alla fine di lei non restò che la voce - o meglio, un’eco.
Si racconta che Narciso, morendo, si trasformò in un fiore:
il narciso appunto, che cresce lungo i corsi d'acqua
"Sera imbarlumida, tal fossàl "Sera luminosa, nel fosso a cres l'aga, na fèmina plena cresce l'acqua, una donna incinta a ciamina pa'l ciamp. cammina per il campo.
Jo ti recuardi, Narcìs, ti vèvis il colòur Io ti ricordo Narciso, avevi il colore da la sera, quand li ciampanis della sera, quando le campane a sùnin di muàrt". suonano a morto".
(Pier Paolo Pasolini, Il nini muàrt)