Flessibilità in entrata e in uscita. Sfoltimento delle tipologie contrattuali e liberalizzazione dei licenziamenti. Razionalizzazione delle politiche attive e passive, dei controlli, delle procedure di conciliazione e delle dinamiche di lavoro. Le promesse del Jobs Act iniziano ad avere una forma più definita, passando da idee a schemi di decreti. Bastasse questo, avremmo già un nuovo mondo del lavoro, ma, sapendo che ci vorranno anni prima di vedere l'influenza delle leggi sulla realtà, siamo consapevoli del fatto che, allo stato attuale, siamo ancora nel mondo delle ipotesi.
Cosa manca allora? Iniziamo da una metafora. Negli Stati Uniti è sempre in voga il dibattito sul possesso di armi da fuoco. Secondo molti, la leggerezza con cui si concede il porto d'armi è una delle principali cause dell'alto tasso di crimini violenti nel paese. Secondo altri, invece, non è questa la ragione, poiché non è lo strumento del crimine ad essere di per sé criminoso: non è la pistola a sparare, tanto quanto non sono forchetta e coltello a rendere obese le persone.
Il dibattito italiano sul lavoro è simile. Vive tra due fuochi: da un lato il timore che le tipologie contrattuali che si discostano dal lavoro standard siano di per sé fonte di abusi, dall'altro la speranza che dando una veste regolare a questi rapporti di lavoro né autonomi né dipendenti si possa "portar fuori dal nero" qualche rapporto in più. È il contratto di collaborazione a progetto, il co.co.pro., a scatenare la propensione all'abuso? Così come è naturale che in un paese senza armi da fuoco la violenza del crimine sia sensibilmente più bassa, in un'economia (o in un ordinamento, per dirla da giurista) priva di contratti "atipici" è ragionevole supporre che la tentazione di abusare delle forme più marginali di lavoro sia più bassa. Ma qui siamo davvero nel campo dell'ipotetico spinto.
Torniamo al mercato del lavoro italiano. Dalla loro introduzione, contratti di collaborazione, stage, apprendistati, lavori a chiamata o ripartiti, associazioni in partecipazione, contratti a termine e somministrazioni hanno aumentato il tasso di occupazione. La facilità di sciogliere i vincoli con i lavoratori assunti con questi contratti, però, con l'arrivo della crisi ha provocato una fortissima ondata di disoccupazione. Pettine di molti nodi, la deriva economica ha rivelato la debolezza del sistema-paese: ad essere assunti come "atipici" sono stati i lavoratori ai margini, cioè giovani, donne e categorie svantaggiate. Le prime teste a saltare, insomma, sono state le loro. Non dei "padri di famiglia", non dei sindacalizzati, non dei lavoratori con più forza contrattuale. La ghigliottina della crisi è scesa sugli ultimi arrivati.
Di chi è stata la "colpa"? Forse delle imprese, che non hanno saputo investire sui nuovi ingressi nel mercato del lavoro e che non hanno saputo applicare i nuovi contratti ai lavoratori "forti". Forse proprio di questi lavoratori tutelati e già professionalmente avviati, che non hanno saputo rinunciare alle tutele in cambio della flessibilità consentita nei rapporti di lavoro "atipici". Forse del sindacato, che si è accorto troppo tardi che co.co.co e somministrati sono persone che lavorano tanto quanto un tesserato tradizionale a tempo indeterminato. È mancato insomma il cambiamento culturale che poteva creare una "classe" di lavoratori soddisfatti del contratto atipico. Ed è mancata una politica - e questo è fin troppo facile da dire – che riconoscesse dignità anche al libero professionista autonomo o freelance - né "falsa partita IVA" né evasore seriale per antonomasia.
Risultato: per gli studiosi un mercato del lavoro duale, per l'opinione pubblica un mercato del lavoro incasinato e per gli analisti internaizonali il peggior mercato di lavoro del mondo.
Ora il Jobs Act vorrebbe cambiare tutto e lo fa con una promessa. Promette un contratto di lavoro a tempo indeterminato…ma che è davvero indeterminato, nel senso che può durare poco o tanto a seconda di come va all'azienda: se il mercato gira, va avanti, se invece i clienti scappano si può licenziare senza troppi problemi. Sembra quasi tautologico, ma in Italia non è stato sicuramente così. "Tempo indeterminato", infatti, vuol dire "lavoro stabile" fintanto che un'azienda è in salute. Altrimenti, sembra un paradosso da noi ma è la regola in altri paesi, il lavoro davvero stabile è quello a tempo determinato, nel senso che si sa quando finisce e se deve durare, mettiamo, tre anni, conviene che duri tre anni. Il Jobs Act, la sua primissima parte dell'ormai lontano marzo 2014, promette anche questo. Promette un'Agenzia unica per la gestione dei sussidi: servirà a concedere i benefici solo a chi cerca attivamente un lavoro e non si limita passivamente a vivere dei soldi dei contribuenti. Promette un'Agenzia unica nazionale anche per gli ispettori del lavoro, utile a coordinare meglio chi vigila sulla reale tutela dei lavoraoti ed è proprio questa, a mio giudizio, la vera cartina tornasole che dirà se il Jobs Act ha funzionato o meno.
Perché sappiamo che solo la certezza di un controllo e di una sanzione, purtroppo, in questo paese garantiscono - a mala pena – il rispetto delle regole. Solo e soltanto se l'Agenzia riuscirà ad essere efficiente ed efficace contro (in ordine sparso) dimissioni in bianco, falsi stage, collaborazioni fasulle ed apprendistati senza formazione allora l'impianto complessivo del Jobs Act potrà dirsi salvo e soprattutto un'arma efficace contro lo sfruttamento del lavoro. Solo e soltanto se riuscirà a sradicare i ricatti con cui, a volte, si proroga un contratto a tempo indeterminato. Solo e soltanto se mazzolerà il datore di lavoro in nero.
Solo e soltanto a queste condizioni vedremo sbalorditi un cambiamento reale.
Poi, da persone che rifiutano le imposizioni e credono nel valore dell'educazione, speriamo di assistere al cambiamento culturale, quello per cui il dipendente ha fiducia nelle capacità di chi lo dirige; quello per cui il datore di lavoro non investe in modi fantasiosi per trasgredire le regole, ma in nuovi sistemi che rendano la sua azienda sempre più competitiva; quello per cui il lavoratore autonomo paga una giusta tassazione e non è costretto ad evadere; quello per cui lo scopo di ogni contratto viene rispettato appieno.
Si capisce perché, allora, tanti termini virgolettati in questo articolo? Sono tutti i termini che cambiano o perdono di significato quando una trasformazione è alle porte. Presto o tardi anche con questo saremo chiamati a fare i conti
Simone Caroli