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Lo sceneggiatore Matt Whiteley - chiamato a scrivere celerissimo un biopic su Steve Jobs quasi immediatamente dopo la sua morte - infatti fallisce di molto la mira rispetto al bersaglio prefisso e anziché fornire un ritratto accurato e attendibile dedicato alla persona dalle idee folli ma possibili da realizzare, preferisce dividere il mare a metà condensando ogni singolo evento ai fini di quelli che furono i passaggi fondamentali che portarono alla nascita dell'azienda informatica di Cupertino e alla sua consecutiva ascesa, prima, e declino poi. Nessuna traccia della parentesi Next allora, come neppure di quella legata alla Pixar - che addirittura non sentiamo proprio nominare - lievi cenni sul periodo universitario e subito un balzo ci porta al primo impiego di Jobs alla Atari, scendendo rapidamente per la collaborazione con l'amico Steve Wozniak, con cui fondò la prima sede di casa Apple nel garage dei suoi genitori, in attesa di calcare la mano sull'accordo che vide i due entrare in affari con Mike Markkula, l'industriale che con un discreto finanziamento permise a La Mela di ingrandirsi e di affacciarsi sul mercato bruciando tappe e concorrenza.
Con tutto lo sforzo possibile ed immaginabile, tuttavia, si fa davvero fatica a considerare "Jobs" il biopic definitivo da dedicare a quel mastodontico personaggio a cui fa riferimento. Quello di Whiteley è più che altro un copione pregno di assoluta superficialità, che affronta i passaggi eclatanti e i momenti più intensi con una naturalezza e una drammaticità ridotta ai minimi termini, che vuole adescare lo spettatore non tratteggiando la figura, seppur complessa, di un uomo spigoloso e incorreggibile, ma tramite l'impazienza di mostrargli il dietro le quinte dell'assemblaggio di un'azienda e dei suoi prodotti stimolandolo con stralci di storia tecnologica e di cronaca informatica.
Privato interamente perciò della sua anima e del suo sangue, Ashton Kutcher è obbligato a puntare - nel ruolo più rilevante e incredibile ottenuto in carriera - sulla somiglianza che lo vede apparire abbastanza fedele al protagonista, fa il meglio possibile nonostante non brilli per bravura o intensità ed esce appena ferito ma con le proprie gambe da quello che poteva essere un macigno letale in grado di spaccargli in mille pezzi la schiena.
In pesante contraddizione con i principi e le rigide regole di chi racconta quindi, in preda alla fretta, quindi approssimativo e vacuo, "Jobs" toglie solo il lucchetto sulla scoperta di una personalità condita da strati ben più assortiti e profondi, chiamando in causa l'opportunità di un secondo tentativo che possa incidere maggiormente, magari, attraverso la penna più pungente e perforante di un Aaron Sorkin di turno.
Nell'attesa, qualche video autentico condiviso su internet può aiutare ad alleviare il dolore, a colmare quei vuoti e quelle sensazioni che la pellicola di Stern ha provato a prendere e a mettere nel sacco senza però curarsi delle condizioni dello stesso, che evidentemente soffriva di un tessuto scadente e non idoneo al contenuto.
Trailer:
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