Quello che mi piace
della buona letteratura è il silenzio
Jon Fosse
Fosse, drammaturgo norvegese della debolezza più che della forza. Liberi delle norme che regolano la rappresentazione dei conflitti nella drammaturgia classica, i suoi drammi sono costruiti sull’economia della parola, in equilibrio fragile tra vuoto e senso. Nello scrivere per un teatro che ancora non esiste Fosse ci insegna di nuovo le parole. Una pedagogia delle parole e dei silenzi. Egli “viene molto vicino a noi,” scrive il critico teatrale Leif Zern, “tanto vicino che perdiamo il controllo e la prospettiva che credevamo di avere. Perdiamo le parole” 1.
Un tema ricorrente in Fosse è il fluire degli uomini nel tempo senza che essi possano evitare né il passato né il futuro; in uno dei suoi capolavori Sogno d’Autunno (Draum om Hausten – 1998) egli sembra seguire il dettato di Strindberg secondo cui “il tempo e lo spazio non esistono; su un fondamento insignificante l’illusione tesse e intreccia nuovi mostri: una mescolanza di ricordi, esperienze, invenzioni in libertà, assurdità e improvvisazioni.” 2 L’attesa, altro tema ricorrente, diremmo noi centrale del drammaturgo norvegese, va inteso come fenomeno esistenziale: attesa tra il futuro e il passato di un indefinibile presente.
In Fosse il sogno non è una metafora della vita bensì della morte. Il suo interesse più che nel sogno si concentra nel sonno: le sue figure esistono in uno stato di sonnolenza o di stanchezza; un primo stadio dello spegnimento completo. Del decesso. Motivo dominante nella drammaturgia di Fosse, il sonno è fratello della morte. È carne della sua carne.
Il mistero dei personaggi di Fosse è che non nascondono mai niente. Niente si cela dietro di essi e in essi. La scena non è soltanto il luogo dove accade qualcosa: è anche lo stesso accadere. La cosa più singolare e determinante che accade nel dramma è proprio quello che non vi accade. La verità è nel silenzio, nel ciò che non diviene, nel vuoto performativo. “La tensione”, scrive Zern, “non concerne tanto i conflitti tra gli esseri umani quanto quelli propri della vita in sé. Lo stare a metà, il sentimento di non appartenenza e quello di estraneità. Il tempo che ci divide fra il nostro io precedente e quello che arriva precipitandosi verso di noi dal futuro. Quello che può farci parlare di noi stessi come né vivi né morti.” 3
Fosse è l’autore-simbolo di una società della depressione: nei suoi drammi prevalgono le negazioni a spegnere ogni speranza e ogni sogno sul futuro; se non riesci a immaginare te stesso come un qualcosa d’altro allora puoi anche essere morto. “La perdita dell’io è il triste facit della società della depressione, il risvolto di una caccia all’identità che ci sollecita a realizzare noi stessi a qualsiasi prezzo.” 4
Il silenzio di Fosse non nasce da un’impossibilità a comunicare quanto da un non volere. Il suo silenzio si può definire mistico nella misura in cui è necessario per avvicinarsi, tendere a un Dio-verità, o meglio, a una verità che è come Dio. Lontana dalla concezione cristiana, la morte è concepita sia in senso fisico che in senso esistenziale cioè come “condizione fondamentale di una vita, quella perdita che ogni secondo ha con sé e che ci allontana da noi stessi e dagli altri.” 5
di Maurizio Landini
http://mauriziolandini.blogspot.it/
Note:
1 Leif Zern, Quel buio luminoso. Sulla drammaturgia di Jon Fosse, trad. Vanda Monaco Westerståhl, Teatrino dei Fondi/Titivillus Mostre Editoria, Corazzano (Pisa), 2012, pag. 23
2 Ivi. pag. 29
3 Ivi. pag. 53
4 Ivi. pag. 65
5 Ivi. pag. 79
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