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Jughead, quattro allievi d’eccellenza alla scuola dei Beatles

Creato il 22 aprile 2012 da Scribacchina

L’avevo ben detto, soliti lettori: «Non siamo di fronte, è necessario dirlo, ad un album che passerà alla storia».
E infatti, provatevi a googlare, se ne avete il coraggio, il nome Jughead.
Oggi, aprile 2012.
Difficilmente riuscirete a trovare al primo colpo i riferimenti alla formazione e al relativo, omonimo ciddì di cui vado a riproporvi la recensione che feci all’epoca.

Potete dunque ritenervi (s)fortunati, cari giovini: la vostra Scribacchina sa estrarre dal magico cilindro progetti tanto side che può ben dirsi capace di «stupirvi con effetti speciali e colori ultravivaci».

***

Jughead

Novembre 2002

Ricordo, verso la fine degli anni ’90, di essermi trovata tra le mani una di quelle compilation allegate alle riviste di musica. La rivista era francese, e il cd conteneva, tra gli altri, anche un brano firmato da Ty Tabor, Live In Your House. Un brano che mi rimase in testa per parecchio tempo, insieme alla voce di Ty Tabor che ripeteva incessantemente «Voglio vivere a casa tua».
Il cd incriminato conteneva anche uno dei primi brani dei celeberrimi (oggi) Hooverphonic, saliti agli albori delle cronache grazie al brano Mad About You inserito in un fortunato spot. Ma questo è un altro discorso.
In quella compilation c’era anche un altro brano che mi aveva colpito, eseguito da un indedito trio composto da Stewart Copeland (ex Police) e dai fratelli Matt e Gregg Bissonette; uno pezzo strumentale meraviglioso. D’altra parte, non ci sono storie: basta nominare Copeland e i Bissonette per intuire la caratura di quel brano.

Quest’oggi, nel novembre del 2002, mi ritrovo tra le mani non più una compilation, ma un intero album firmato a quattro mani dal ‘nostro’ Ty Tabor con la collaborazione dei fratelli Matt e Gregg Bissonette e di Derek Sherinian (ex Dream Theater). Una grandissima sorpresa, per me, ascoltare (quasi) tutti in una volta i protagonisti di quella compilation francese.

La formazione si chiama Jughead: in italiano, approssimativamente, ‘testa di brocca‘. E infatti, in copertina campeggia una figura umana con al posto della testa… una brocca. Il curioso sta nel fatto che esiste già un altro gruppo di nome Jughead: l’omonima band è canadese e propone un bluegrass acustico mediato ed addolcito dall’inserimento in repertorio di note cover.

Ovviamente, i ‘nostri’ Jughead nulla hanno a che vedere con la band canadese. Il loro album, titolato semplicemente Jughead e pubblicato lo scorso 13 agosto, contiene undici tracce accattivanti, una sorta di ‘piatto unico’ per chi cerca musica nuova ma, al tempo stesso, estremamente appetibile.

È un obiettivo interessante quello rincorso dai quattro musicisti: riportare, in uno stesso album, le atmosfere evocate dai Beatles e miscelarle con la grande lezione degli XTC. E sono questi ultimi, i ‘duchi della stratosfera‘, a fare la parte del leone nella traccia numero dieci Shame On The Butterfly: armonizzazioni vocali inconfondibili, soluzioni metriche pressoché identiche a quelle della band degli anni ’80. C’è chi ci vede anche l’influenza dei Foo Fighters di Dave Grohl (ex Nirvana), ma francamente, più che l’influenza di Grohl, ci vedo la stessa, grande impronta del passato rappresentato dai Beatles e da chi ha fatto della semplicità (attenzione: non banalità) il proprio stendardo.
Da apprezzare la versatilità dei tre sideman: il tastierista Derek Sherinian e i fratelli Matt e Gregg Bissonette, capaci di passare dal metal (Derek per diverso tempo ha fatto parte dei Dream Theater) e dal jazz al pop-rock senza scomporsi.

Non siamo di fronte, è necessario dirlo, ad un album che passerà alla storia. Non siamo nemmeno di fronte a suoni inediti, a soluzioni funamboliche.
Quello che abbiamo di fronte è semplicemente un album ben costruito, gradevolissimo da ascoltare, da canticchiare, da far ascoltare agli amici. Un album assolutamente non impegnativo: sin dalla traccia numero uno (Halfway Home To Elvis) balza all’occhio e resta in primo piano la grande semplicità di musica e testi.

E sono proprio i testi che lasciano un po’ spiazzati: quello di Promise, traccia numero quattro, potrebbe essere stato scritto tranquillamente da McCartney. Delicato, romantico, un inno d’amore «alla ragazza della mia vita, mia amica, mia moglie», che si è allontanata «perché ha bisogno di sentirsi libera».
Un richiamo alla vita di tutti i giorni, in Flowers: «Ho detto che l’avrei fatto, ma non l’ho fatto… non ho lavato i piatti e le finestre».
La grande dichiarazione di ammirazione verso il quartetto di Liverpool si nota però nell’ultima traccia, la undici: Paging Willie Mays. Atmosfere da Beatles del periodo seconda metà anni Sessanta, unite ad una frase che non può essere fraintesa: “Are you for real / Strawberry’s in the field?”.

In definitiva, si tratta di un album simpatico, molto ben suonato e assolutamente non impegnativo. Una sorta di ‘ritorno alle origini’ per chi ‑ dopo aver ascoltato troppa musica commerciale ‑ vuole riassaporare il gusto di un accordo ben costruito, di un’armonizzazione vellutata, di una musica semplice ma, in sostanza, vera. Senza artifici.


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