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Julian Baggini e la facile tristezza dell’ateo

Creato il 22 maggio 2012 da Uccronline

Julian Baggini e la facile tristezza dell’ateoLa cultura miscredente pare avere qualche problema d’immagine, sopratutto con il termine “ateo”. Lo spiega Julian Baggini dalle colonne del “Guardian”: «Il problema con il soprannome di “ateo” è riconosciuto da decenni. E’ troppo negativo, troppo associato al nichilismo amorale».  Dopo le violenze in nome dell’assenza di Dio perpetrate negli ultimi due secoli (Illuminismo e Comunismo), ormai il termine “ateo” è pregiudizialmente abbinato a qualcosa di negativo.

Tanti esponenti hanno fortemente contribuito al solidificare questo abbinamento, pensiamo solamente in Italia al comportamento deviato di Piergiorgio Odifreddi. Anche Richard Dawkins ha sulle spalle gravi responsabilità per la negativa reputazione dell’ateismo, tant’è che vorrebbe risolvere la questione studiando un termine a tavolino -come ha fatto la comunità omosessuale con “gay”- per trasmettere “positività, calore, allegria”. Avrebbe quindi pensato a “bright” (“brillante”), come sostituto di “ateo”.  E’ l’ultima pazza idea di un uomo che -come ha ammesso lui stesso- ha completamente fallito, tanto che i suoi successori -come Alain De Botton- non esitano a dissociarsi da lui volendo creare un  “nuovo ateismo”, come un antidoto «all’aggressivo e distruttivo approccio di Dawkins alla miscredenza [...] A causa di Richard Dawkins e Christopher Hitchens, l’ateismo è diventato noto solo come una forza distruttiva. Ma ci sono un sacco di persone che non credono, ma non sono aggressive verso le religioni».

Lo stesso Baggini non è convinto dell’idea di Dawkins, anche perché l’ateismo di per sé non è né caldo, né allegro, né brillante. «Gli atei sembrano spesso sottolineare negli ultimi anni il loro lato allegro», commenta l’intellettuale ricordando ad esempio gli “autobus atei” del solito Dawkins, che invitavano a smettere di preoccuparsi e godersi la vita “senza Dio”. Ma «essi», spiega, «devono vivere con la consapevolezza che non c’è salvezza, nessuna redenzione, nessuna seconda possibilità [...].  Si può davvero dire ai genitori che hanno perso il loro bambino che dovrebbero smettere di preoccuparsi e godersi la vita? A volte la vita è una merda e non c’è nulla da fare. Non c’è molto di brillante in questo fatto». In questo spietato realismo c’è una grande parte di verità: perché infatti vale la pena vivere, faticare, sudare, soffrire in questa “valle di lacrime” se tutto ha una data di scadenza? L’uomo che si priva di un “oltre” non può che concepirsi come un condannato a morte dal momento della nascita, il quale può solo scongiurare il pensiero della scadenza ultima, distraendosi o resistendo stoicamente. Entrambe azioni inadeguate però, perché qualunque cosa farà avrà sempre dentro l’incombente ombra della fine. 

«La ragione dell’essere ateo», spiega Baggini, «è semplicemente che Dio non esiste e noi prefeririamo vivere in pieno riconoscimento di ciò, accettando le conseguenze, anche se ci rendono meno felici». L’affermazione che “Dio non esiste”, tuttavia, è una semplice scelta di queste persone, basata su nessun riconoscimento. Una scelta completamente immotivata che li rende maggiormente infelici, una scelta che appare fortemente masochista, se ci si può permettere. «Penso che sia il momento  per noi atei di confessare e ammettere che la vita senza Dio a volte può essere piuttosto triste», conclude lo scrittore, impegnati come siamo nel «cercare qualche progresso in un universo privo di significato». Una scelta immotivata e contro la loro stessa natura umana, che si rifiuta alla privazione di un significato, tant’è che si intristisce. Non corrisponde alla natura dell’uomo questa scelta di privarsi arbitrariamente di un senso ultimo. Perché allora non prendere sul serio il proprio “io”, la propria umanità, non riconoscere questa inevitabile tristezza come un segno, come un inestirpabile messaggio (un suggerimento) del fatto che l’uomo è fatto per riconoscere e aderire ad un senso più grande di sé, ad un Significato ultimo?

Il convertito Sant’Agostino lo aveva capito benissimo quando scrisse: «Dio ci ha fatti per Lui, e il nostro cuore è inquieto finché non trova quiete in Lui» («fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te», da “Le Confessioni”).


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