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Junichiro Kawasaki – 3. “Abito un tempo con un occhio solo”

Creato il 20 febbraio 2011 da Viadellebelledonne

 

Junichiro Kawasaki – 3. “Abito un tempo con un occhio solo”

 

Sul finire degli anni Venti la crisi economica mondiale cominciò a mordere in profondità anche l’Impero del Sol Levante. La risposta fu l’espansionismo coloniale e la repressione interna, nel quadro di un regime totalitario che assunse la fisionomia tipica dei fascismi europei. Il dispotismo militare, appoggiato dal ceto medio, timoroso del comunismo, provocò la deriva antidemocratica che portò il Giappone nel ‘33 ad uscire dalla Società delle Nazioni e ad esercitare nel sud-est asiatico lo stesso ruolo violento e aggressivo della Germania nel Vecchio Continente, senza risparmiare il gigante cinese, enorme ma vulnerabile. Fino al Patto Tripartito Roma-Berlino-Tokyo del 1939.

Era l’inizio di una guerra folle, combattuta ben oltre la sua conclusione in Europa, fino all’apocalisse atomica del 6 agosto 1945 su Hiroshima e Nagasaki.

Junikiro e la sua famiglia, che ormai contava tre figli, non furono risparmiati dalla tragedia di quegli anni, come nessuno, del resto, in Giappone.

Arruolato nella Marina Imperiale, combatté nel Pacifico, provando sulla carne e nelle viscere che significa uccidere per non essere uccisi, aggredire per non subire, esercitare l’intelligenza contro invece che per, patire le ferite e il rischio d’amputazioni, imporsi di stare sveglio per non avere incubi, soffrire la sete e la fame, essere naufraghi e aspettarsi di diventare bersaglio del nemico o pasto per i pesci e, soprattutto, dover convivere giorno e notte con la paura, che toglie il fiato, sporca la divisa, priva d’ogni dignità.

Erika e i suoi figli sopportarono invece le privazioni d’una città dove mancava quasi tutto e nella quale era possibile procurarsi qualcosa solo al mercato nero o al prezzo di estenuanti file a causa del razionamento. La donna, oltre che ai suoi ragazzi, doveva pensare anche ai suoceri, invecchiati all’improvviso, come se la guerra avesse accelerato il loro processo degenerativo, tanto che lei aveva l’impressione che fossero anch’essi bambini da accudire. Lo faceva dando fondo a tutte le sue energie, col cuore ai genitori rimasti a Kyoto, al marito lontano e esposto a ogni pericolo.

Andava a letto vestita, come tutti, col terrore dei bombardamenti, delle sirene che la svegliavano col cuore in gola e la obbligavano a lasciare il tepore del futon, a svegliare concitata i suoi figli e i genitori di Junichiro già tremanti, per cercare rifugio altrove, scongiurando le divinità di risparmiare almeno i ragazzi. E ogni volta che l’allarme cessava ed erano tutti vivi, le lacrime rapprese finalmente traboccavano dalle ciglia e poteva piangere di sollievo, in silenzio, fino a casa Il bombardamento peggiore fu quello del 10 marzo 1945, quando davvero temette il peggio: invece si salvarono, almeno loro, i più giovani. Non così i suoi suoceri che, quasi in salvo, furono colpiti da una scheggia e morirono sul colpo. Erika per anni fu lacerata da sensi di colpa: avrebbe dovuto curarli di più, accertarsi che fossero al sicuro subito dopo i suoi figli. Invece aveva pensato a sé, prima. Inutilmente il marito, quando seppe, la scagionò d’ogni responsabilità: il rimorso non le dava tregua. Kyoto invece fu risparmiata e solo molto più tardi si seppe che in origine il bersaglio dell’atomica doveva essere lei, l’antica gloriosa capitale, a cui poi furono preferite Hiroshima e Nagasaki.

La notizia dell’ecatombe nucleare passò come un vento di morte su tutto il Giappone: l’irreparabile, l’inosabile, quello che, nemmeno negli incubi peggiori, i giapponesi avevano immaginato, era accaduto. Quasi duecentomila persone, tutte civili, erano morte subito, nelle modalità più atroci; gli altri avrebbero terribilmente patito su se stessi e trasmesso alle generazioni future gli effetti devastanti delle radiazioni atomiche.

Non c’è dio, non c’è umanità, esiste solo il buio, il terrore, la morte…

Perché ho fatto nascere i miei figli? Per consegnarli a un mondo orfano di pietà, cieco e sordo alle sofferenze? Che ne sarà di loro?…Che ne sarà di questa patria infelice?

Il ritorno alla normalità fu più difficile del previsto per Junikiro ed Erika: finché erano stati forzatamente separati, pareva loro un miraggio ritrovarsi, vivi. Poter vivere in mezzo a tanta morte e desolazione sembrava il privilegio più grande, che avrebbe assorbito ogni sofferenza trascorsa singolarmente, sublimandola e rendendola lievito di serenità per il futuro. Quando invece si ritrovarono, la prima impressione che provarono entrambi fu Che cambiamento! E’ quasi irriconoscibile…dov’è il volto, il corpo che ho lasciato, dov’è quell’anima che tanto amavo? Ce la faremo più a stare insieme, a dividere la stessa casa, lo stesso letto, bere come una volta dalla stessa tazza di tè?

Anche se la guerra non uccide, lascia delle cicatrici così profonde nello spirito che solo il tempo può impallidirle. Li aiutarono i figli: la ragazza aveva ormai ventisette anni  e  sperava di poter presto sposarsi col suo antico fidanzato ma per il momento era preoccupata dello stato dei propri genitori che, sentinelle coraggiose in tempo di guerra, sembravano ora accusare tutte in una volta le conseguenze dello sforzo titanico compiuto per salvarsi e salvare; i figli maschi, rispettivamente di ventidue e vent’anni, vedevano nel loro padre un eroe da compensare con un clima familiare il più possibile tranquillo e amorevole. Così, a poco a poco, Junichiro e Erika riscoprirono le loro affinità, le attrattive che li avevano ammaliati, un tempo, e impararono di nuovo ad amarsi, con più maturità e devozione, dopo una lontananza fisica e spirituale che era sembrata insormontabile.

Gli anni dell’impegno al Ministero della Marina e quelli di guerra, nonché le energie fisiche spese ad essere un buon padre e possibilmente un buon marito, avevano allontanato Junichiro dalla sua passione giovanile, la poesia. Non che l’avesse dimenticata, tutt’altro, ma i suoi versi, invece di scriverli su un foglio di carta, l’aveva tracciati in qualche meandro spiegazzato del cuore, in attesa di recuperarli, un giorno, quando ne avesse avuto il tempo. Un lusso da non potersi permettere perché c’erano delle priorità più assillanti. Così aveva concepito per decenni la creazione poetica.

Ora, sopravvissuto alla catastrofe bellica e atomica, approdato come un Ulisse ammaccato alla sua Itaca di affetti e di autentici valori, ormai quarantasettenne e con i primi capelli bianchi, aveva capito di doversi dedicare, con la stessa determinazione di una missione da compiere, a quello che da sempre aveva desiderato coltivare e che invece aveva trascurato, come un giardino prezioso lasciato invadere dalle erbacce, la poesia. Recuperò quei versi nascosti nelle pieghe della sua anima, versi d’amore, di rabbia, di odio e di paura, versi lirici ed epici e regalò loro i tratti della sua scrittura minuta, ordinata, incisiva, personalissima. Si chiuse nel suo studio e scrisse, scrisse centinaia di poesie che finalmente vedevano la luce, diventavano creature concrete che potevano camminare con le loro gambe, farsi ascoltare da chi avesse avuto orecchio e cuore, girare per tutto il Paese e forse medicare le sue ferite orrende.

La fatica fisica lo stremò e pensò che così dovesse sentirsi una donna dopo aver partorito, ma fu anche terapeutica per il suo animo che tanto aveva sperimentato e patito.

“E ora che ne farai di tutte le tue poesie?” chiese sommessamente Erika, che comunque non perdeva il suo senso pratico nemmeno di fronte ai versi del marito

“Che vuoi che ne faccia…?” rispose lui, un po’ bruscamente “per me l’importante è averle scritte, rimarranno nel cassetto, passeranno ai figli e ai nipoti e forse resterà il ricordo di un nonno-poeta. Questo mi basta!”

Ma Erika non si dette per vinta: sentiva che quegli scritti avevano un valore, anche se non era un’esperta e si mise pazientemente a ricopiarli, uno ad uno, mentre il marito non c’era. Impiegò circa un mese a completare il suo lavoro e un giorno, in cui era sola in casa, prese quelle carte e le portò ad un libraio antiquario che aveva il suo negozio nello stesso quartiere. “Lasciami tutto, ti farò sapere” rispose quell’omino che ad Erika pareva uscito direttamente da un antico libro di fiabe. Ritornò a casa col cuore in gola, come se avesse compiuto un misfatto. Una settimana dopo timidamente si ripresentò sulla porta della bottega; l’omino alzò la testa dal suo librone dei conti ed esclamò. “Sono bellissime, non possono restare in un cassetto, meritano di essere lette da tutti…Dentro c’è tutto il mondo, il dolore, la gioia, il tormento e l’estasi dell’amore, la rabbia, l’odio, la frustrazione, l’impotenza…insomma la fatica e il privilegio d’essere creature umane. Le faccio vedere a un editore che conosco…” e rituffò la sua testolina nei conti, come se avesse parlato anche troppo. Erika ritornò più che mai turbata a casa.

Intanto Junichiro, oltre che alla poesia, cominciò a dedicarsi sistematicamente allo studio della società giapponese: non che fino a quel momento si fosse disinteressato di quello che gli accadeva intorno, anzi, da sempre se ne era occupato, anche a causa della sua professione; ma ora voleva saperne di più, conoscerla a fondo nei meccanismi sociologici che per la sua formazione da economista gli sfuggivano. Inoltre, c’era un settore che lo affascinava enormemente, quello dei mezzi di comunicazione di massa: i giornali, la radio, il cinema avevano svolto un ruolo fondamentale in quei decenni e particolarmente durante la guerra; ma ora si cominciava  a parlare di un altro mezzo destinato a grande futuro e che si basava, oltre che sul sonoro,  sulla trasmissione delle immagini: la chiamavano televisione, negli USA ce n’erano già dei prototipi. Decise di iscriversi nuovamente all’Università e rivisse una nuova giovinezza

 

Il libraio antiquario si fece vivo con Erika due mesi dopo, quando la donna quasi non ci pensava più. “L’Editore vuol conoscere Junichiro, vuole fargli una proposta di pubblicazione…devi dirglielo subito, prima che cambi idea!”

Per Erika non fu facile fare quell’annuncio al marito, che all’inizio andò su tutte le furie per il gesto audace della moglie di sottrargli le poesie per farle valutare: lo sentì un’ingerenza indebita nel suo privato, come se lo avessero spiato dal buco della serratura. Poi, piano piano si calmò e capì che in fondo la moglie, con quel gesto, gli aveva dimostrato di credere in lui e nel suo valore. Andò ad asciugarle le lacrime e a consolarla. Si ritrovarono a fare l’amore come si erano scordati di saperlo fare.

Sei mesi dopo non c’era libreria di Tokyo che non esponesse in vetrina le poesie di Junichiro. Le copie andarono a ruba e cominciarono le ristampe.

Il nome di Kawasaki iniziò ad essere conosciuto prima nella capitale, poi nelle altre città giapponesi e grazie alla stampa, che si occupò presto di lui come della rivelazione letteraria del dopoguerra nipponico, in tutto il Giappone.

Il successo si spiega anche con l’autentica passione dei giapponesi per la poesia e in particolare per l’haiku, un componimento brevissimo, di appena tre versi, considerato un autentico distillato creativo: in esso, almeno in quello classico, il riferimento alla stagione e quindi alla natura, altro grande idolo, è molto apprezzato.

Junichiro amava agli haiku per la loro capacità di costringere il poeta allo sfrondamento del superfluo, alla limatura, fino all’estremo, fino al rischio dell’ermetismo più oscuro. Ma anche quello era una sfida eccitante che valeva le ore trascorse su ogni singolo verso come Abito un tempo che ha un occhio solo, che fece scervellare i critici con le interpretazioni più bizzarre; ma se, nelle interviste gli veniva chiesto di essere un pochino più chiaro, di allentare quello stretto gomitolo di segni e suoni per renderlo una melodia più comprensibile, diceva: “Questo non è il compito del poeta, il poeta crea, gli altri devono spiegare” e non c’era verso di cavargli di bocca qualcosa di più.

In quegli anni la poesia si configurava come una risposta al vuoto spirituale conseguente alla tragica esperienza bellica e diventava megafono delle istanze di un popolo che aveva osato troppo e troppo prepotentemente ma che era stato sconfitto, umiliato e annientato dalla punizione più atroce e indiscriminata, quella dell’olocausto atomico.

I componimenti di Junichiro, così come, molto presto, i saggi, le riflessioni e gli interventi  giornalistici o radiofonici su quel periodo storico difficilissimo, dominato dall’occupazione americana, dalle conseguenze delle bombe, dalla miseria, dalle distruzioni, dal vittimismo e dalla disperazione più acuta, furono per quel popolo prostrato altrettanti balsami: Kawasaki non si sottraeva ad un’analisi spietata e coraggiosa delle cause che avevano portato a quel disastro; denunciava il militarismo, l’imperialismo, le sopraffazioni compiute per tutto il corso degli anni Trenta e poi gli errori militari, il folle attacco di Pearl Harbor, l’ostinazione a voler continuare la guerra oltre ogni ragionevole limite e ancora il rischio del piangersi addosso senza reagire, lasciando che il glorioso Impero del Sol Levante diventasse una colonia statunitense. Insomma costringeva il Giappone a mettersi allo specchio, a guardarsi senza maschere, a capire che il futuro sarebbe dipeso unicamente dal loro impegno individuale e collettivo. In nome delle antiche radici, dell’identità smarrita e vilipesa, del coraggio di un Paese passato in cinquant’anni dal medioevo alla modernità. Potevano farcela, Junikiro li aiutava, dava loro fiducia e coraggio, senza blandirli o giustificarli; e ce la fecero. Cominciarono a ricostruire con ardore, con foga: era una rifondazione su miti e valori diversi da quelli del recente passato, in cui c’era da ritessere la trama dei rapporti col mondo intero, a cominciare da quello asiatico, di sentimenti comprensibilmente antinipponici.

Nel 1953, in pieno fermento ricostruttivo, con i figli ormai autonomi ed Erika che, per consolarsi della casa troppo vuota e di un marito latitante perché famoso, aveva realizzato il suo antico sogno di esercitare l’ikebana in un negozio tutto suo, Junikiro ricevette una visita che definire gradita è riduttivo. Lo raggiunse in Giappone un suo grande estimatore britannico, quel Gafyn Llawgoch, considerato il più grande pensatore anarchico del Galles, con cui per molto tempo era stato in rapporti epistolari.

 

MGC

3. JK continua



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