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La pausa di riflessione è terminata, ma d’altronde le cronache locali, nazionali e mondiali mi insegnano che quando non si ha nulla da dire è meglio tacere.
Ho letto e ascoltato le innumerevoli polemiche createsi intorno ai due film italiani del momento, Diaz e Romanzo di una strage, e sono sempre più convinta che questo paese abbia poca voglia di indagare sui reali problemi che lo hanno reso la nazione che è oggi. Siamo i figli delle stragi, delle bombe e degli assassinii irrisolti, ma in pochi si sono resi conto che per capire noi e il paese in cui viviamo è necessario raccontare il passato tenendo vivo il presente, sporcandosi le mani, il volto e i vestiti. A quanto pare per Marco Tullio Giordana la dialettica tra il presente e il passato non è una tappa fondamentale e necessaria, e rimane una questione ancora lontana. Il filmetti illustrativi su come siano avvenute le stragi di Capaci e via d’Amelio, su come sia stato gestito il rapimento Moro, su chi abbia ucciso Salvatore Giuliano o sul perché della bomba in piazza Fontana hanno un po’ stancato e non dicono nulla di nuovo. E’ necessario un cambiamento di rotta e, probabilmente, una maggiore comprensione degli avvenimenti passati e presenti; credo che sia doveroso, almeno nei confronti di chi per questioni anagrafiche non ha potuto assistere a quelle stragi e a quei delitti, spiegare, e non illustrare come fanno i libri di scuola scelti dagli apparati ministeriali, come quei fatti hanno reso noi, i nostri vicini e la nostra terra quelli che siamo oggi. E’ inutile dimenticare, siamo figli di quegli anni lì.
Il cinema italiano, a parte rarissime eccezioni, è drasticamente radicato al passato, vive di passato e guarda al passato, dimostrando poco interesse nei confronti dell’attualità. E anche le pellicole che dovrebbero parlare dell’oggi e dei problemi contemporanei sono figlie del passato, basti pensare al fantasma della commedia all’italiana che aleggia ancora sulla nostra industria cinematografica o ai tentativi di imitazione dei grandi maestri del nostro cinema. Non è un caso che in Italia si cerchino ancora i nuovi Mastroianni, i nuovi De Sica, i nuovi Zavattini, i nuovi Monicelli e le nuove Loren, in questo paese si fa fatica a comprendere e prendere in considerazione un cambio generazionale. Invece di accettare l’unicità un Pierfrancesco Favino, di un Elio Germano o un Paolo Sorrentino, li si paragona ai grandi del passato, proprio perché il nostro passato cinematografico ci rende orgogliosi.
Ci siamo macchiati di qualsiasi delitto, ma noi riusciamo ancora a uccidere i nostri padri, al contrario li coccoliamo, li invochiamo e li imitiamo come fanno i bambini in tenera età. Da anni non cresciamo più perché siamo ancora attaccati alla gonnella di mammà, perché abbiamo bisogno di tenerci al sicuro dietro le spalle possenti di papà, ma soprattutto perché rimanere bambini in fondo ci gratifica.
O forse abbiamo solo paura di capire che senza di loro non saremmo poi così interessanti? Oppure abbiamo paura di scoprire che i delitti e le stragi del passato ce le teniamo ancora dentro e le coviamo anche se abbiamo fatto finta di dimenticare? O forse perché non abbiamo nulla da dire?
In fondo anche io dimostro di essere rimasta ancorata al passato e di non aver nulla di nuovo da raccontare(o forse da trent’anni siamo sempre nello stesso punto?!), perché Moretti c’era arrivato prima me e di noi tutti.
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