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Justin Novak e la morbosità delle disfigurine

Creato il 23 gennaio 2016 da Salone Del Lutto @salonedellutto

Justin_Novak_1La parola figurine è il corrispettivo inglese del nostro “statuetta”. Più difficile rendere in un italiano soddisfacente il termine Disfigurine, scelto da Justin Novak per uno dei suoi lavori più sorprendenti: dis-statuette o dis-statuine non funzionano, sono dis-sonanti. Userò disfigurine, tanto a un certo punto si capirà di cosa voglio parlare.

Prima, però, due parole su questo artista-designer-artigiano, che trovo molto interessante. Novak ha avuto nel tempo molte case: San Juan (Porto Rico), Zagabria (Croazia), e poi anche Roma – un’esperienza, quest’ultima, che lo ha forgiato più di altre «questa è stata l’esperienza più formativa nel mio sviluppo come artista. Sono rimasto affascinato dalla narrazione cattolica del martirio, e il modo in cui l’intera cultura si fondasse sull’estetizzazione della morte e della deturpazione, e per molti anni ho fatto tutto quello che poteva essere fatto per risalire a quelle figure trascendenti». Trasferitosi a New York, per 12 anni Novak intraprende la carriera di illustratore freelance e graphic designer. Ma poi il focus del suo lavoro si sposta sull’arte della ceramica.

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Una scelta singolare, che ricade su un mezzo espressivo non così diffuso nei circuiti “alternativi”. I creatori di disfigurine, infatti, credo si possano contare sulle dita di una mano. Fra coloro che abbiamo citato sulla nostra pagina Facebook, ad esempio, mi vengono in mente i nomi di Maria Rubinke, Jessica Harrison e Penny Birne. Sicuramente ce ne sono altri, non ho la conoscenza del tutto, ma comunque ho il sospetto che non siano moltissimi. L’idea della ceramica la leghiamo tradizionalmente a un qualcosa di diverso: alle statuine raffiguranti bimbi, bimbe e damine conservate nella vetrinetta nel salotto della nonna – anche il concetto di vetrinetta, a ben vedere, sta inesorabilmente decadendo – o alle miriadi di oggetti di uso quotidiano – i piatti, le tazzine, le teiere… Fino a prima del Salone del Lutto, non immaginavo neanche lontanamente che la ceramica potesse essere usata per evocare qualcosa di disturbante; tutto quello che vi vedevo dentro era la rassicurante normalità dei ciapapuer (per i non piemontesi: il termine lo prendo in prestito da Guido Gozzano, e si riferisce ai soprammobili e alle suppellettili che hanno un’unica funzione, quella di impolverarsi).

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Ok. Che qualcuno usi la ceramica per dare un po’ di morbosa inquietudine dovremmo averlo capito. Vediamo che fa Justin Novak. Sul concetto di disfigurina l’artista si è espresso così: «La statuetta in ceramica ha storicamente incarnato un mainstream, l’ideologia borghese, e per questo motivo l’ho usata per comunicare una visione alternativa, un’anti-statuetta ironica, la disfigurina. Nella serie disfigurine, le ferite fisiche, come le contusioni e le lacerazioni sono metafore di traumi psicologici. Considerando che le statuette hanno storicamente rappresentato le regole e gli ideali della cultura dominante, le disfigurine parlano dei danni inflitti da quelle stesse aspettative».

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Non è un caso, forse, che io nel lavoro di Novak sia incappata in una condizione di lacerazione estrema. La prima ad avermi colpita è stata l’immagine di una giovane donna seduta, nuda, con crepe a percorrere tutto il corpo e a significare i traumi subiti nel tempo. Su uno degli avambracci, in corrispondenza delle vene, uno squarcio verticale, forse autoinflitto; l’altra mano intenta a ricucirlo con ago e filo. Altre disfigurine mostrano: teste decapitate, morsi sulla schiena che quasi asportano via la pelle, un uomo e una donna che si leccano le ferite reciproche. La morte non c’è sempre, no. Piuttosto è una morbosità liscia e raffinata l’elemento prevalente, come conferma anche Novak: «Le narrazioni che coinvolgono la morte e la violenza sono particolarmente ricche e potenti. Questi soggetti sono spesso trattati in modo così casuale, che col mio lavoro cerco di fare uno sforzo per sondarle in maniera più penetrante. La mia opera d’arte ha sempre avuto una forte vena morbosa».

Non lo si percepisce solo dalle disfigurine, ma anche da altri lavori come 21st Century Bunny, dove il coniglio, da classico simbolo della mancanza di coraggio si trasforma in emblema del comportamento violento. Non che la violenza sia sinonimo di coraggio. Tutt’altro. Forse la paura, portata alle estreme conseguenze, diventa esattamente questo: un coniglio bastardo, armato di pistola, inneggiante alle bombe e alla catastrofe e tendenzialmente pronto a uccidere. Così, in un amen.

di Silvia Ceriani

Le quotes di Justin Novak le ho riprese di qui.


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